domenica 29 novembre 2009

Stand-by da riflessione etnografica

Questo filo di pensieri é momentaneamente in stand-by da riflessione etnografica!!
Il tempo scorre veloce, il 25 gennaio ritorno al vecchio continente, alla mia vita, ai miei soliti percorsi, che eppure mi sono mancati e mi mancano tanto, in questa realtà a volte cosi estraniante, a volte cosi familiare.
Rispetto alle vere ragioni per cui sono qui, mi si impone di fare un punto della situazione.
"Dobbiamo trovare strumenti di misura di cui il mondo non conosce la scala, disegnare da soli i nostri schemi, ricevere una reazione, stabilire collegamenti, ridurre l'errore, cercare di imparare la funzione reale...puntare su quale incalcolabile trama?" (Thomas Pynchon - Arcobaleno della gravità)
In parole non mie, é questo il compito che mi spetta.
Eppure tornero' a riallacciare questa trama...ho solo bisogno di un po' di tempo per pensarci su...

mercoledì 4 novembre 2009

Quale Madagascar?

Spesso le cose, quando le guardi da vicino, ti rivelano particolari inattesi. Come quelle superfici che sembrano bianche e compatte e invece, se ti soffermi a studiarle con lo sguardo, nascondono solchi, anfratti e crepe, interstizi nei quali pulsa tutta una vita, una trama di microstorie che all’inizio non avevi notato.
Madagascar è un nome evocativo, il nome di un’immagine da cartolina, con lunghe spiagge bianche e mare luminoso, foreste dense e paradiso degli animali… Eppure, appena ci entri dentro, questa immagine ti rivela che, nei suoi chiaroscuri, si annidano storie di mille e una contraddizione. E ti racconta non solo di lussureggiante vegetazione, ma anche di altipiani senza alberi; non solo di sabbia fine, ma anche di scarsezza d’acqua potabile; non solo di avventurose discese in piroga, ma anche di “strade impossibili da percorrere in cui le distanze si misurano in ore e non in chilometri”; non solo di romantiche capanne in riva all’oceano, ma anche di case di terra dalle mura così esili che sembrano disegnate dalla matita di un bambino. Ti racconta di una grande isola con l’atmosfera di un continente, ti racconta sì di un paradiso, ma anche dell’inferno.

Lo chiamano Paese in via di Sviluppo, ma verso quale sviluppo si muove, questo Madagascar?
Quando ero piccola li chiamavamo Paesi del Terzo Mondo, una definizione che, a posteriori, mi sembra avere almeno un pregio: quello di evocare un’alternativa tra modi di vita possibili, tra maniere diverse di risalire la china. Opzione numero uno, numero due e numero tre, e benché implicitamente stiamo dicendo che una è più valida delle altre, anche quelle meno desiderabili conservano una loro ragion d’essere. Paese in via di Sviluppo, invece, sembra avere un sapore escatologico e universale: come se tutti si stessero muovendo, in maniera lineare e univoca, verso un’unica grande meta, che noi abbiamo invece già raggiunto: lo Sviluppo, quello con la esse maiuscola. Che poi che cos’è? Educazione, salute, acqua potabile e elettricità per tutti? Strade, tecnologia, dinamismo commerciale? Abbondanza, scelte, consumi? Come dice l’antropologo Arturo Escobar, “tutti ripetono la stessa verità di base, vale a dire che lo sviluppo consiste nell’aprire la strada alla realizzazione di quelle condizioni che caratterizzano le società ricche: industrializzazione, modernizzazione agricola e urbanizzazione”. Se lo interroghiamo, il concetto di Sviluppo, sembra parlarci soprattutto di noi, del nostro Occidente, del quale gli altri Paesi dovrebbero sbrigarsi a diventare una copia, così finalmente avremo nuovi mercati in cui vendere e altri specchi che, rinviandoci la nostra panciuta immagine riflessa, ci confermeranno che abbiamo fatto la cosa giusta, diffondendo benessere e civilizzazione nel mondo intero.
Ecco dunque: ho messo il naso in questa immagine patinata e ho cominciato a vederne gli angoli di colore sbiadito, qualche chiazza di nero e i conti che non tornano per niente, per cui mi viene da riflettere sul potere creatore delle definizioni, sui limiti e le ambiguità dei concetti.
Che cosa diciamo, quando diciamo Paese in via di Sviluppo? Innanzitutto, una realtà che definiamo per negazione, un’entità sospesa indefinitamente in un “non ancora” che, forse, sottomette il tempo ai criteri di una presunta logica universale che, dal canto nostro, diamo abbastanza per scontata, senza chiederci mai se ci sono altre logiche possibili. Non è forse vero che, quando diamo un nome alle cose, esercitiamo su di esse una forma di potere, molto spesso pervaso di ideologia, in virtù del quale, per esigenze di chiarezza, le oggettiviamo, determinando il modo in cui esse esistono? È sempre Escobar a dire, “lo sviluppo è stato il meccanismo primario attraverso cui il Terzo Mondo è stato immaginato e ha immaginato se stesso, marginalizzando o precludendo in questo modo altri modi di vedere e di agire”. E questo ha fatto si che quello che ora incontriamo, quando ci muoviamo nei paesi in via di Sviluppo, è una realtà definita per mancanza, per sottrazione, per negazione rispetto al confronto con la nostra. Oggetto, a fasi alterne, di commiserazione, rifiuto e assistenzialismo.
Ma voglio sdrammatizzare! L’antropologia da sola già mi da abbastanza gatte da pelare, figurati tu condirla con delle complicate teorie sociali! Eppure, se mi trovo a riflettere su questa cosa, è perché, se c’è un vantaggio nel fatto di essere in apprendistato antropologico, è quello di trovarsi a decostruire i propri giudizi di valore. Provando quindi a fare tabula rasa, ho incontrato nel mio bagaglio un pezzo dell’immaginario a cui fa riferimento Escobar. E parlando con altri vazaha che ho incontrato, mi sono resa che anche loro ce l’avevano, e questo gli impediva di vedere il Madagascar per quello che è veramente. Il nostro immaginario ci impedisce di venire alla resa dei conti con la complessità del reale, con le contraddizioni di un inferno che si trova in paradiso!
La ragione per cui ho detto tutto questo è che a volte penso che il mormorio dell’Occidente ci ha storicamente impedito di ascoltare cosa gli Altri avessero da dire, su che cosa sono e sul futuro che desiderano. L’idea di Sviluppo che questi paesi rincorrono è un’invenzione dell’Occidente. Per questo essi dipendono da noi per realizzarla. Forse, se le liberassimo da questa immagine per negazione che hanno di sé, queste società ritroverebbero la propria identità e comincerebbero a sognare il proprio futuro. Lo so, inventare nuove teorie non basta a cambiare la realtà, ma ci fa fare il primo passo per ripensarla. Vince una volta ha detto: “la vera povertà è l’impossibilità di avere dei sogni”. E forse, aggiungo io, anche trovarsi a sognare i sogni degli altri.
Come diceva Luis Mallart: “¿Por qué no nos callamos un momento, dejamos de proponer temas de conversación, y escuchamos lo que ellos libremente tienen que decir sobre África –si es que les apetece hablar de África-“.

lunedì 19 ottobre 2009

“Udite udite!”: un risveglio con il banditore

Il mattino seguente piovigginava. Saremmo dovuti ripartire, ma considerato il tempo, la difficoltà del percorso e la simpatia di Rakoto e tutto il clan, abbiamo deciso di fermarci ancora una notte. Era ancora mattina presto quando l’ho sentito per la prima volta: era proprio un banditore! Si, proprio lui, quello che nelle favole fa sempre il suo ingresso con un sonoro: “Udite! Udite!!!”. Risulta che a Sakaivo, come nei villaggi medievali, le notizie di interesse pubblico si diffondono così, con questo personaggio che sale sulla collina al centro del paese e si mette ad urlare, in modo che i suoi strilli raggiungano tutti gli abitanti. Tendo l’orecchio per cercare di capire che cosa stesse dicendo. E riesco a distinguere le parole: “Vazaha”…”Mahay teny gasy”…Ma… sta parlando di noi! E che cosa sarà mai? Vado da Rakoto a chiedere lumi. Lui, che mi accoglie col suo solito sorriso, mi spiega che quella mattina uno dei suoi nipoti più giovani ha perso dei soldi (15.000 Ar , una bella sommetta) nella piazza centrale del paese. Mi dice che qualcuno li ha trovati, una ragazzina, ma che non si sa chi è, né lei sa a chi restituirli. Allora al banditore è stato affidato il compito di persuaderla. E come spauracchio - e qui entriamo in gioco noi! - le è stato intimato a gran voce che è meglio che si risolva a farlo in fretta, perché in paese ci sono dei vazaha, che parlano pure malgascio, e possiedono uno strumento tecnologico (una macchina della verità??) in grado di individuare bugiardi e malfattori. Rakoto non fa in tempo a finire di raccontarmi la storia, che la madre della bambina entra per restituire i soldi.
Eccoci dunque: abbiamo partecipato indirettamente al compimento di una buona azione! E abbiamo pure toccato con mano che la minaccia dell’uomo bianco (come quella dell’uomo nero da noi!) continua a funzionare, ahinoi!

Dentro una tranomena

Tra i vari villaggi zafimaniry che abbiamo visitato, un posto speciale merita Sakaivo Avaratra, un agglomerato di una cinquantina di casette di legno ai piedi del cocuzzolo di Laibory, ad una altezza di 1450 m. Il villaggio è presieduto da un collegio di anziani, un membro dei quali, Rakoto Emanuel, ci ha offerto ospitalità durante il nostro soggiorno. Rakoto ha 73 anni ed è un ospite eccezionale, uno di quelli che il futuro ad immaginarlo ci ha già provato: pur non parlando una parola di francese, ha costruito una casa per accogliere i turisti proprio accanto alla sua; ha insistito perché le guide insegnassero a suo nipote Desy a cucinare all’europea, così, quando ci sono visite, anche lui riesce a rimediare un po’ di soldi; ha costruito un rudimentale gabinetto e un vano doccia: piccoli confort di base che dopo una giornata di cammino si fanno apprezzare. L’atmosfera che si crea è talmente semplice e familiare che il vazaha riesce a dimenticare per un attimo il suo pallore e si rilassa per apprezzare il calore di un’ospitalità tradizionale. A fare il resto ci pensa il largo sorriso di Rakoto e due o tre goccetti di toaka, il rum locale: l’incantesimo è fatto.
La casa di Rakoto, come quasi tutte le case di Sakaivo, è una casa tradizionale zafimaniry. La tranomena, così è che si chiama, segue una precisa disposizione geografica, che rievoca, con alcuni tratti comuni anche ad altre case tradizionali degli altipiani, le origini e le credenze di un popolo i cui antenati arrivarono dalla Malesia a bordo delle piroghe. Tutte le case del villaggio sono allineate lungo l’asse nord-sud, con l’apertura rivolta ad ovest per proteggerla dagli alisei, i venti carichi di pioggia che soffiano da est. L’angolo sud-est, che in questa cosmologia metaforica e miniaturizzata rappresenta l’Oceano Indiano, è quello in cui normalmente si conserva l’acqua, ossia il grosso bidone con la riserva giornaliera che ogni mattina viene riempito alla fonte. L’angolo nord-est invece è quello ben augurante, dedicato alla memoria degli antenati provenienti dall’Asia (che si trova appunto a nord-est del Madagascar), e al “masoandro”, che tradotto letteralmente diventa “occhio del giorno”: è così che i malgasci chiamano il sole. In quest’angolo, prima di dare inizio ai brindisi e ai discorsi di benvenuto per i nuovi arrivati, si rivolge un breve ringraziamento agli antenati, offrendo loro qualche goccia di rum.
Anche la casa di Rakoto rispetta questa disposizione. Nella zona sud c’è il focolare, costituito da tre pietre, che rappresentano padre, madre e figli che reggono la pentola con il cibo che li nutre. La cappa di aereazione però non c’è, cosicché l’ambiente è costantemente invaso dal fumo: l’unico modo per far smettere di lacrimare gli occhi è accovacciarsi su bassi sgabelli, rimanendo al di sotto della spessa nube tossica. La fuliggine che annerisce tutto offre però un vantaggio: impregna le pareti e impermeabilizza l’interno della casa, rendendola così più resistente agli agenti atmosferici. Con questo piccolo trucco una tranomena, pur essendo fatta interamente di legno, riesce a resistere fino a 300 anni! Nella stanza non c’è altro arredo che le nattes, i tappeti di rafia su cui gli zafimaniry, e i malgasci di campagna in generale, mangiano, conversano, e spesso dormono anche. Un nutrito corredo di nattes e qualche sgabello è difatti la prima dote per una ragazza da marito.
Dal canto nostro, devo ammettere che abbiamo avuto una certa fortuna, perché siamo capitati a casa di Rakoto durante una grossa riunione di famiglia in occasione della seconda semina della risaia. Secondo una tradizione che purtroppo va facendosi sempre più rara, in Madagascar per i lavori agricoli più importanti si fa appello alla solidarietà di tutto il clan, che si riunisce per dare una mano, senza aspettarsi altro in cambio che condivisione del pasto, ringraziamenti sentiti e brindisi di rito. Queste riunioni, oltre all’evidente fine pratico, sono estremamente importanti per cementare i vincoli parentali, giacché costituiscono momenti di incontro e conoscenza tra tutti i rami della estesissima famiglia, momenti quindi per discutere di unioni, di nascite e di morti.
Quando siamo arrivati a casa di Rakoto, nella tarda mattinata di venerdì 2 ottobre, tutto il clan era quindi al gran completo, e tra uomini, donne e bambini, saremo stati una cinquantina. Nell’ala sud della casa, riservata alle donne, bolliva il grosso pentolone colmo di mais destinato a sfamare gli operai, che in quel momento erano al lavoro nella risaia. Rakoto ci ha accolto invece nella parte nord, quella normalmente riservata agli uomini. Dopo un brindisi all’europea con una rinfrancante birra THB, il pomeriggio è trascorso tra piacevoli chiacchiere e una visita alla risaia, per dare un’occhiata allo svolgimento dei lavori. A ora di cena, la casa si è affollata di gente. Non si è fatto in tempo a ingollare l’ultima cucchiaiata di riso che già cominciavano brindisi e discorsi: un sorso al capofamiglia – Rakoto - e uno all’ospite! Un cicchetto al capoclan – Rakoto - e uno anche al vazaha! Un brindisi per l’anziano del villaggio - sempre Rakoto! - e uno a suo cugino!!! E così via trincando, finché la sbronza ha ucciso la conversazione e sono cominciati i canti e i controcanti, che a gole spiegate sono andati avanti per un bel pezzo della notte. In tutto ciò, si beveva a turno e tutti dallo stesso bicchiere. Meno male - pensava il mio demone igienista - che con i suoi 80° a uccidere i germi ci pensa l’alcol!
Anche la presenza mia e di Vince, la cui parlantina malgascia si scioglieva mano a mano che aumentava il livello alcolico, costituiva tutto sommato un piccolo evento. Ma in fondo, il vero protagonista della serata era l’aiuto reciproco, quella solidarietà familiare così delicatamente raffigurata in uno dei motivi scultorei più cari agli Zafimaniry. Quello il cui motto è: l’unione fa la forza.

Qualche nota sugli Zafimaniry

Nel cuore degli altipiani del Madagascar, a est della cittadina di Ambositra, vivono gli Zafimaniry. Il loro mito fondante vuole che, due secoli or sono o giù di lì, questo gruppo di origini Betsileo si rifugiasse tra le montagne per sfuggire alla deforestazione incipiente e alla coscrizione obbligatoria imposta dai conquistatori Merina.
Che sia stato per desiderio di boschi intatti oppure di libertà, questa gente ha vissuto praticamente isolata per diverso tempo, su cime di difficile accesso e perennemente avvolte di bruma, praticando una agricoltura di sussistenza a base di mais, patate dolci, taro e manioca, ottenuta col sistema del “taglia e brucia”: tagliano alberi e arbusti, li lasciano seccare al sole, poi appiccano un fuoco controllato col quale liberano la parcella che diventerà terra di coltura. Dopo il raccolto, prima di ritornare sullo stesso appezzamento, lasciano riposare per un paio d’anni. Questa tecnica, che risparmia la fatica di dissodare e arare, ha però come conseguenza che, dopo due o tre rotazioni, la terra, esangue, non produce altro che felci e sterpaglia. Attualmente questo gruppo conta circa 50.000 persone sparsi in circa un centinaio di villaggi che, come il resto del Madagascar, sono in costante crescita demografica. Se è vero che siano fuggiti sulle montagne per “desiderio” della foresta (Zafimaniry significa, infatti, “discendenti che desiderano”), è indubbio che la foresta l’hanno amata fino ad ammazzarla: la distesa boscosa di un tempo è oggi ridotta ad un corridoio che si restringe ad ogni giorno che passa. “Maty ny ala” - ti dicono - “la foresta è morta” e sembrano alludere ad una catastrofe inevitabile con la quale loro non hanno niente a che vedere. Ma la foresta, da sola, non muore: sono gli Zafimaniry che se la stanno, quasi letteralmente, mangiando.
Tuttavia, non è per rimproverarli che sono andata a conoscerli!
Grazie alla loro tradizionale simbiosi con il bosco, gli Zafimaniry hanno infatti sviluppato una grandissima abilità nella lavorazione del legno. Quasi tutto, nel loro mondo, viene dalla foresta: le case, interamente di palissandro, sono autentici capolavori di incastro, costruite senza nemmeno un chiodo, completamente smontabili e con porte e finestre finemente scolpite; gli sgabelli su cui siedono sono ricavati da un unico blocco di legno; i grossi contenitori con i quali un tempo, quando la foresta era ancora lussureggiante e generosa, andavano a raccogliere il miele selvatico, sono tronchi scavati; i sepolcri famigliari sono pesanti sarcofagi, i più antichi dei quali assemblati con due soli blocchi di un unico tronco. Nella loro vita quotidiana, gli Zafimaniry riconoscono e utilizzano circa 23 tipi di legni diversi, ognuno con una sua precisa funzione. Questa incredibile maestria è stata dichiarata, nel 2003, Patrimonio Intangibile dell’Umanità dall’Unesco. Ma mentre la loro arte diventa Patrimonio Universale, la risorsa che permette loro di esserne maestri scompare lentamente (ma nemmeno troppo) e senza nessun clamore, distrutta proprio da coloro che dovrebbero esserne i custodi.
Ciononostante, il paese degli Zafimaniry continua ad offrire una panorama di straordinaria bellezza e ad essere meta di numerosi turisti, che si avventurano in trekking di uno o più giorni, per visitare quelle piccole meraviglie di palissandro nascoste in mezzo alle montagne.
Così, eccomi là, a osservare interazioni e cambiamenti derivanti dal contatto con lo straniero, in un mondo vegetale in cui la richiesta di regalare bottiglie di plastica vuote e la presenza di qualche telefonino (che però funziona soltanto se ti arrampichi in cima alla montagna), rappresentano il primo, ma non certo l’ultimo, segno del peggio della globalizzazione che avanza.
Ho trascorso nel paese zafimaniry circa tre settimane, durante le quali ho incontrato e discusso con i notabili del villaggio e con tutti coloro che, in una forma o l’altra, possono essere implicati direttamente o fungere da osservatori privilegiati nell’incontro turistico. Sono state tre settimane fisicamente impegnative perché, per spostarmi da un villaggio all’altro, ho dovuto fare del trekking - il diversivo naturalistico del turista – la condizione necessaria per il mio lavoro. Per raggiungere i vari villaggi infatti bisogna salire su su per la montagna e poi riscendere a valle: una, due, tre volte, tante quante le valli e le montagne, su sentieri dissestati che finiscono spesso sugli esilissimi ponti che attraversano innumerevoli rigagnoli e che poi si abbarbicano su per le pareti di granito. Un passo dopo l’altro, finisci per percorrere almeno una quindicina di chilometri ad ogni spostamento. Ad ogni nuovo percorso, ti viene da pensare che, da qualunque cosa stesse fuggendo quando venne ad installarsi quassù, questa gente ne doveva avere una fifa tremenda! Questi stessi sentieri per gli Zafimaniry sono il pane quotidiano giacché li percorrono a passo incredibilmente svelto ogni giorno, per andare e tornare dai campi e dal bosco. Il mercoledì, giorno di mercato, nutrite carovane di gente, provenienti dai quattro punti cardinali, attraversano in fila indiana le montagne in direzione di Antoetra, il capoluogo della comune, dal quale tornano trasportandosi i loro carichi, le donne sulla testa, gli uomini sulle spalle. Al mercato gli Zafimaniry ci vanno per comprare, quasi mai per vendere, e si muovono in gruppo per paura dei briganti che, crudele ironia, in questi tempi di povertà diffusa trovano lucrativo derubare persino dei semplici contadini.
Ad ogni arrivo in un nuovo villaggio, prima di poter parlare con possibili informanti per la mia ricerca, mi toccava poi attendere pazientemente la sera, perché fino all’imbrunire per strada ci sono solo bambini: chiunque ha braccia forti è al lavoro nei campi. Ovviamente, non tutti i villaggi Zafimaniry ricevono le visite dei turisti: del centinaio che ho menzionato, ne avrò visitati una quindicina e solo quattro possono dirsi a pieno titolo “a vocazione turistica”. Curiosamente, questi quattro non sono necessariamente i più belli, ma solamente i più accessibili. Ancora più curiosamente, i loro abitanti di turismo ne sanno poco o niente, nonostante ricevano una media di un migliaio di visitatori all’anno. Per loro il turismo è gente bianca che viene a fare delle foto, e tutto ciò che sperano è che gli lascino penne, quaderni e qualche maglietta usata, cosa che invece, da un diverso punto di vista, è proprio il peggio che gli potrebbe capitare. Ancor meno, sempre più curiosamente, sanno di essere “Patrimonio Intangibile dell’Umanità”. Paradossale, no?
Ma del resto che senso potrebbero avere per loro queste etichette? Le definizioni sono utili solo per chi sa come usarle e in molti casi servono a riempire dizionari e guide turistiche. È vero, la foresta brucia e con essa il futuro delle generazioni. È vero, il turismo potrebbe forse diventare un’efficace leva di sviluppo e contribuire alla salvaguardia della natura. Tuttavia, dopo qualche scambio con la gente del posto, ti viene il dubbio su da che parte stare, se con chi conserva o con chi distrugge. A questi ultimi, in fondo, che alternativa si propone? Il futuro sta da un’altra parte e per loro non è ancora imprescindibile cominciare ad immaginarlo, soprattutto a stomaco vuoto. E poi ancora, che ne può sapere del turismo questa gente che non è mai stata nemmeno in capitale? La loro è una “vocazione turistica” loro malgrado, che nessuno gli ha mai spiegato che cos’è né come potrebbero usarla per non essere costretti ad elemosinare.
Fuori dalle pagine dei libri dunque la visione del mondo è sempre più complessa e sfumata. Le parole, per essere sufficienti a descriverla con giustizia, devono attraversare innumerevoli ostacoli culturali e scendere giù nelle valli del significato.
Ma poiché questi per il momento vogliono essere solo frammenti, che mai hanno preteso di riuscire a dirla tutta sulla realtà di quest’isola, comincerò raccontando delle storie.

lunedì 5 ottobre 2009

Sorry, but…

Viaggiare è bello perché ti fa apprezzare le cose che dai per scontato. Qualche tempo fa leggevo che riflettere su ciò che si ha è un ottimo esercizio per allenare il proprio senso di gratitudine. Stando così le cose, sto quindi unendo l’utile al dilettevole e lavorando per diventare una persona migliore (!).
Quando sono venuta in Madagascar, qualcun’altro che c’era stato prima di me si è stupito che io temessi la mancanza di comunicazione col mondo. C’è bastato poco per rendermi conto che, forse, lui in Madagascar non c’era mai stato, o perlomeno, il suo Madagascar non era lo stesso. In questo Madagascar, dal quale vi scrivo, l’ADSL non è ancora arrivata, il telefono prende solo nelle città e per allegare un file pdf, l’altro giorno, dopo aver cercato e scovato l’unico internet point di questa cittadina di 30.000 abitanti, operazione che già in sé ha richiesto circa una mezza giornata di investigazione, c’ho messo la bellezza di 94 minuti! E questo, a scanso equivoci, se qualche volta mi fa innervosire, il più delle volte mi fa invece riflettere molto profondamente sull’Occidente dal quale provengo e sulla quotidianità di un Paese in Via di Sviluppo, o del Terzo Mondo, come si diceva prima dell’avvento del “politically correct”…ma quella è un’altra storia, e ve la racconterò un’altra volta.
Queste difficoltà tecniche mi costringono a postare con immenso ritardo, intanto che di acqua sotto i ponti ne continua a passare e le situazioni e i sentimenti cambiano velocemente. Ciononostante, non rinuncio alla voglia di nutrire questo blog raccontando fatti che, anche se portano a procedere a ritroso, mi sono utili per documentare tutti i vari passaggi di questi mesi.
Oggi, 5 ottobre, sono di ritorno da 2 settimane di lavoro di campo nelle comunità zafimaniry. Nell’attesa di digerire le informazioni raccolte e le esperienze vissute, vi lascio con quello che succedeva due settimane che sembrano un eternità fa… Buona lettura!

A proposito di attese…

Così, tanto per trastullarci, riprendiamo un filo lasciato in sospeso. Vi ricordate quella lunga, tortuosa storia di visto? Per la gioia degli appassionati di telenovele, la vicenda non è ancora finita!
L’ultima volta che ci eravamo sentiti, agli inizi di luglio, la sottoscritta, dopo una decina di giorni passati tra i corridoi del Ministero dell’Interno malgascio, era riuscita ad ottenere una “ricevuta di deposito della richiesta di visto”, che le dava diritto a muoversi più o meno liberamente per il paese fino al 9 di agosto. “Le manderemo una notifica per posta prima della scadenza!”, mi aveva detto la simpatica addetta alla sportello.
Qualche giorno prima del 9 agosto, in effetti, la notifica è arrivata. “Gentilissima Madame – recitava la lettera che parafraso liberamente – abbiamo l’onore di informarla che, bla bla bla bla bla bla, se vuole ottenere il visto ci deve far pervenire le ricevute di versamento di somme alquanto considerevoli, ovvero, 60 euro per il visto più altri 92 per il rilascio della carta di residenza”. GULP. Non è che morissi dalla voglia di investire altri 150 € in bolli, ecco! In più, mi sembra che per gli studenti dovesse esserci il metà prezzo!
Occorre un faccia a faccia. Approfittando dell’arrivo del mio fedele compagno di merende, Vince, mi reco in capitale. Plano sugli uffici del Ministero. L’impiegata è sempre lì. Oggi, per darsi l’aria più indaffarata del solito, sta giocando al solitario. Dopo avermi ignorato per circa dieci minuti, durante i quali io esorcizzo l’attesa immaginando di fare pipì nel bel mezzo dell’ufficio o di dare fuoco a tutte quelle pile di scartoffie che traboccano dagli scaffali, la tipa fa fremere un sopracciglio e mi rivolge un infastidito: “Che cosa ci fa qui?”, senza “lei” e senza “s’il vous plait”. Le spiego che mi è arrivata la notifica di pagamento del visto, ma che forse ci dev’essere un errore, perché io sono studentessa e mi si sta chiedendo una somma esagerata, il doppio di quella ufficiale, che non solo è pubblicamente affissa all’ingresso ma anche stampata su quell’avviso che le penzola proprio davanti al naso. “Certo, certo!” - dice poco convinta la nostra paladina della postilla – “ma il fatto è che ci sono diversi tipi di studenti”. “Certo, certo - penso io, più che mai decisa a non mollare – “E dove starebbe, questa classifica delle varie tipologie?”“Mmm…bahhhh…insomma….forse…un attimo che controllo…” e lascia a mezzo il solitario per far finta di prendere tempo prima di tornare indietro a darmi la ragione e lo sconto. Strappa quindi la notifica che mi era arrivata, prende un foglio pulito e si accinge a ricopiare il testo, a mano. Si blocca un momento perché non sa fare 92 diviso 2 senza la calcolatrice. Riprende a scrivere. “Ecco! Adesso può andare a pagare. I 30 euro li paga direttamente al Ministero del Tesoro, i rimanenti 46 tramite bonifico bancario indirizzato al Ministero dell’Interno. Ah, dimenticavo!Per questo secondo versamento deve aprirsi un conto bancario in Madagascar!” – “Scusi, ma non potrei farlo dal mio conto bancario spagnolo, il versamento?” – “Perché, conta di tornare in Spagna, nei prossimi giorni?”.
Indecisa se ridere o piangere, capisco che la dimestichezza della nostra funzionaria con la tecnologia si limita al gioco del solitario, per cui la saluto, tutto sommato cordialmente, e, ormai a pezzi, sciamo verso la banca.
Coda.
Attesa.
Arriva il mio turno: “Buongiorno, dovrei fare questo versamento!”- “Ottimo. Ecco la lista dei documenti da consegnare per poter aprire un conto in banca!”. Un’altra decina di fotocopie, bolli, certificati, foto tessere e scartoffie da un giorno di sbattimento l’una.
Invito all’illegalità.
Invito alla corruzione.
Invito al terrorismo.
NO. NO. NO. IO NON VOGLIO VENIRE A VIVERE IN MADAGASCAR. IO NON VOGLIO RIMANERCI PER SEMPRE. IO VOGLIO SOLO FARE UNA PICCOLA, MODESTA, INNOCUA RICERCA E POI TORNARE A CASA MIA. NON VOGLIO UNA CARTA DI RESIDENZA. NON VOGLIO UN CONTO IN BANCA. HO GIA IL MIO BIGLIETTO DI RITORNO E PER QUANTO MI RIGUARDA, SONO PRONTA ANCHE AD USARLO SUBITO. LA PREGO SIGNORA NON MI TORMENTI, IL MIO TEMPO STA PER SCADERE.
Ma si sa, le preghiere non servono a molto, se Dio c’ha il visto scaduto pure lui. L’indomani, quindi, dopo aver lungamente riflettuto, risolvo di cercare qualcuno che abbia già un conto in banca e che possa fare il versamento al posto mio. Lo trovo. Ci dovremmo incontrare ma lui è malato. Allora, pur di cominciare da qualche parte, vado a fare il primo dei due versamenti, quello al Ministero del Tesoro. E proprio lì, che sta facendo la fila pure lui, trovo Ahmed Said, uno studente comoriano. Gli chiedo: “Ma tu come fai, a fare tutte queste trafile? Un conto in banca ce l’hai?” E Ahmed Said mi dice che lui il conto in banca non ce l’ha, ma che qualcuno disposto a fare un versamento al posto suo, e anche mio se ho bisogno, già lo conosce. Così io e Vince seguiamo Ahmed Said, che ci porta in una piazzetta, dove c’è un tipo. Costui vorrebbe i soldi, ma io non glie li do. “Vai a fare il versamento prima – gli dico – e poi, con la ricevuta in mano, io ti rimborso i soldi”. Incredibile ma vero, e anche questo è Madagascar, il tipo torna dopo mezzora con la ricevuta. Tutto a posto, tutto in ordine, non mi chiede nemmeno una lira, ma penso che sia perché da qualche parte la sua cresta se la dev’essere già fatta. Io comunque il taxy glie lo pago, mi sembra il minimo e poi è meno di un euro. Ringrazio. Con Ahmed Said corriamo al Ministero, che ha già chiuso ma ci lascia entrare lo stesso. Ho tutti i documenti, tutti i versamenti, tutte le buste pre-affrancate, tutte le fotografie. “Tutto in ordine”- dice la sempre più sfaccendata funzionaria “Fra una settimana può passare a ritirare il visto. Per la carta di residenza, dovrà aspettare circa un mese. Fino ad allora, il suo passaporto ce lo teniamo noi”.
Questo accadeva il 25 di agosto. Ad oggi, il mio passaporto è ancora li. Tanto in tre mesi non me lo ha mai chiesto nessuno. Spero che il visto sia pronto, spero che non me l’abbiano perso. Ma che devo fare? Se avessi saputo che era un argomento così interessante, la mia tesi la scrivevo sulla burocrazia malgascia!!

Due soldi per apparare una lira

18 settembre: Chi è che diceva: “Ti mancano sempre due soldi per apparare una lira?”. Perché a me questa frase, ovviamente riferita a me stessa, in queste settimane mi torna in mente come un ritornello. È il corollario, la giustificazione, la didascalia ai miei momenti di frustrazione accademica.
Prima di arrivare in questo paese, io la ricerca me la immaginavo diversa: già mi vedevo sbarcare senza preliminari nel villaggio sperduto, salutata da cori e danze, armata fino ai denti di taccuini e registratori e pronta ad afferrare il benché minimo fruscio di eventi. Pensavo di potermi dimenticare della forma, delle anticamere, pensavo, finalmente, di poter dedicarmi al mio lavoro senza dovermi occupare d’altro. Evidentemente, anche se non mi stupisce fino in fondo, sbagliavo.
Invece…
Prima di intraprendere la mia ricerca, ad esempio, mi devo preoccupare di comprare tonnellate di batterie. Così poi non rimango senza proprio nel bel mezzo della registrazione di quell’irripetibile litania. Prima di intraprendere la mia ricerca, mi devo preoccupare di come trovare il modo per arrivare dove devo andare. Perché qui non ci sono automobili noleggiate né persone altolocate che mi offrono un passaggio. E inoltre, prima di occuparmi della mia ricerca, devo cercare di farmi presentare a qualcuno che mi suggerisca qualcun’altro che mi possa accompagnare a trovare quel qualcuno che mi aiuterà a fare la ricerca. E, sempre che questo qualcuno si lasci ammaliare da tanto altisonanti quanto fasulli discorsi di presentazione, prima di intraprendere la mia ricerca devo assicurarmi di avere in tasca un po’ di grana per oliare la raucedine della sua ugola. Perché, ovviamente, non è che la gente faccia esattamente a pugni, per dire la sua nella mia ricerca. E non devo assolutamente dimenticare di abbigliarmi adeguatamente, prima di intraprendere la mia ricerca, perché, anche se l’intervista si fa nel villaggio in mezzo alla selva e per arrivarci si è camminato un’ora e mezza sotto il sole, è importante mantenere un’apparenza curata e professionale, perché sennò, che credibilità hai? E inoltre, prima di intraprendere la mia ricerca, dovrei forse togliermi il vizio di gesticolare tanto e soprattutto di puntare il dito, gesto che faccio puntualmente quando voglio enfatizzare una domanda, visto che qui è considerato di pessima educazione. E, sempre prima di intraprendere la mia ricerca, non devo dimenticare di avere sempre in tasca, preparati con cura, tanti bei questionari, adattati alle circostanze e agli interlocutori, perché magari quel tizio che hai perseguitato per telefono durante tutta la settimana te lo incontri mentre sta facendo la spesa al mercato, o magari, finalmente stanco di sentirlo suonare, decide di rispondere al telefono, e allora ti dice: “O ci vediamo immediatamente o mai più!” e allora, se non sei hai preparato adeguatamente la tua ricerca, hai perso un’occasione di quelle che non si ripresentano più. E un po’ di devozione, prima di intraprendere la mia ricerca, non guasterà mai, visto che qui, a tirare le fila, c’è sempre qualche servo di Dio, che prima di darti una mano, vorrà anche lui assicurarsi che hai ricevuto tutti i sacramenti.
Così, in questa immensità, annega il pensier mio…
Ecco, a me, per fare la ricercatrice, del tipo instituzional-altisonante, mi mancano ancora un po’ di pezzi. Oltre agli accessori sopracitati, mi piacerebbe avere un fuoristrada e un casco coloniale. Poi, una cura bella forte contro la “sindrome di Stoccolma”. Infine, vorrei un aspetto un po’ più autoritario, forse funzionerebbe bene anche solo un’aria veramente da sfigata, degli occhiali spessi, la erre moscia, un atteggiamento un po’ più schifiltoso, di quelli che ti fanno squadrare la gente dall’alto in basso. E forse anche un po’ più di paura, perché se ne avessi, rimarrei tra le gonnelle dell’istituzione, anziché esserne sempre rigurgitata fuori, in situazioni tutte da inventare e nelle quali mi ritrovo quasi sola a credere. Se avessi più timori, cercherei più protezione e per scambio, magari, troverei più appoggi istituzionali. Invece mi ritrovo qui, sul campo, e penso, architetto, proietto e organizzo. E, fino a un certo punto, tutto bene. Taccuini rigurgitanti informazioni. Nastri di testimonianze fresche fresche e per giunta in una lingua che non capisce nessuno. Fino a quando il consiglio di quel tal professore: “Nelle comunità, devi sempre andare per mano di qualcuno!” non si è trasformato in una minaccia: “Se non conosci nessuno, non riuscirai a portare avanti il tuo lavoro!”. Dov’è, dov’è finito il mio Ogotemmeli? Dove sono finiti gli stuoli di informanti e di interpreti dei miei libri di testo? Dove sono le istituzioni?
Ecco, sono questi i due soldi che mi mancano, che mi sono sempre mancati per apparare una lira! Avere le chiavi giuste, le presentazioni che mettono in soggezione, le parole magiche che aprono le porte. Qui come altrove, la logica è sempre quella: se non ti manda nessuno, nessuno si accorgerà che sei arrivato.

E allora, faccio un passo indietro e cambio strategia. Esercitando la neo acquisita virtù della pazienza biblica, aspetto di essere contatta dal parroco delle comunità zafimaniry, che si è offerto di accompagnarmi e ospitarmi. Certo, l’alternativa sarebbe stata andarci con delle guide turistiche. Ma mi dite voi come si fa ad ottenere informazioni sincere e volendo anche critiche, se quello che ti fa da interprete ha tutti i suoi interessi in gioco? Scartate quindi le circa trenta guide turistiche, tra abusive ed ufficiali, scartato il segretario regionale del Ministero della Cultura, che dopo il solito ritornello di presentazioni, fraintendendo evidentemente la mia richiesta, mi ha guardato stupito da dietro i suoi occhialetti e mi ha detto: “Sarei felice di poterla accompagnare, ma vede, io qui sono solo, ad occuparmi di tutto (!!) e poi, non ho nemmeno l’automobile. Che ne direbbe se le consigliassi una guida amica mia? Di altra gente, non è che ne conosco”; aspetto Padre Max. Il parroco, appunto. Una vera manna dal cielo, verrebbe da dire. Ma il padre in questione, tra le sue pecorelle smarrite mica ci vive. Le visita, di tanto in tanto. E quindi, io aspetto che la chiamata arrivi. Da dieci giorni. Una pausa necessaria, prima di intraprendere la mia ricerca.

lunedì 14 settembre 2009

Quattro mura e una porta che non si apre: una visita al carcere di Ambositra

Dall’esterno non si nota nemmeno. È un edificio a un piano, simile a tutti quelli governativi, con la bandiera malgascia che penzola sull’entrata. Ci andiamo di domenica. Tantely e Lova, due piccoli ospiti della casa, vanno a trovare le loro mamme. La sorellina di Tantely è li rinchiusa, con la mamma che fa dentro e fuori tra una gravidanza e l’altra: ruba, entra, scappa, si innamora ogni volta di un uomo diverso, poi torna a consegnarsi, perché in fondo un tetto, in certe circostanze, male non fa. Ad ogni fuga, la pena cresce e si accumula. Ne avrà ancora per un bel pezzo. Quando arriviamo, la scena è diversa da come la si potrebbe immaginare. Tantely non le corre incontro, non le butta le braccia al collo. Quella bambina che prima sorrideva, adesso è contrariata. Accetta di andarle in braccio ma è come ammutolita. La guarda con distacco. L’altro bimbo, Lova, non è nemmeno così diplomatico: appena vede la sua, di mamma, scoppia in singhiozzi disperati. Volenti o nolenti, rimarranno lì fino a stasera.
Il carcere di Ambositra ospita 20 donne e circa 300 uomini. L’accusa più comune è il furto, ma tra gli uomini ci sono anche assassini e stupratori, per la serie “di tutto un po’”. Alcuni detenuti sono in attesa di processo, altri sono già stati condannati, ma vai tu a capire come funziona la legge, in un paese corrotto come questo e per qualcuno che non si può permettere nemmeno un avvocato d’ufficio.
Dopo aver visitato la sezione delle donne, aspettiamo, seduti al sole, prima di passare alla sezione degli uomini. Chi immaginava sbarre e filo spinato, ovviamente si sbagliava. Le porte sono fatte di assi di legno, una scritta a gessetto con le O a forma di cuoricino invoca l’aiuto del Signore, il lucchetto è cinese e le chiavi ce le ha una guardia dall’aria assolutamente corruttibile. “La gente alla fine mica sta tutto il tempo li rinchiusa” – dice Giovanna - “Guarda che le guardie se li portano pure a casa, li fanno lavorare come schiavi, e mica gli danno un piatto di riso, altro che!" Le guardie, intanto, sono li. Ce n’è una vezzosa, femmina, che sembra essersi appena comprata l’uniforme nuova, tanto è bella, pulita e stirata. Nello stivale ti ci puoi quasi specchiare. Ce ne sono altre due, dall’occhio ubriaco, che soppesano pigramente le opzioni per vincere la partita a domino. Un altro, invece, si affaccenda tirando a lucido le canne di un’intera partita di fucili, che sembrano recuperati alla svendita del museo del Risorgimento: come il resto delle armi in dotazione all’esercito malgascio, sono tutti uno diverso dall’altro e la prima pallottola l’hanno sparata almeno vent’anni fa. Il quadretto è completato da un detenuto che, seduto in anticamera, sta usando una specie di cavatappi per fare un massaggio ai piedi, pare contro l’ipertensione, ad una familiare venuta in visita.
La domenica, in carcere, è un giorno speciale: al miserrimo rancio statale, che prevede 50 gr di manioca secca a testa al giorno, in un’unica razione che ognuno cucina per sé, si aggiungono riso e carne, dono delle suore della carità. Meno male che ci sono le feste comandate! Purtroppo, da quel grosso sacco di riso venuto da fuori, la guardia tira fuori solo una piccolissima quantità, chiaramente insufficiente per tutti. Il resto sparisce dentro il magazzino. La guardia gira la chiave nella toppa e se la intasca, come tutto il resto.

Entriamo nella sezione degli uomini. Uno spiazzale grosso quanto un campo di calcio, circondato dagli edifici in cui si trovano le camerate. Andiamo a dare un’occhiata: sono completamente spoglie. Difficile dire in quanti siano a dormirci. Le stuoie e le coperte sono ripiegate e ammassate negli angoli. C’è l’odore acre del chiuso e dell’affollamento.
Nello spiazzale, la prima impressione è di assistere ad una replica della vita che c’è fuori, al netto di rumori e donne. Se nelle prigioni europee l’individualità si dissolve nelle uniformi, in questo carcere ciascuno conserva il proprio stile. Così incontri il giovane rapper e pure il contadino. Chi era povero fuori, lo rimane anche dentro. La gente parlotta in gruppettini, qui e lì si vendono mucchietti di noccioline, c’è chi gioca a dama con le pietre, chi si cucina la manioca bollita. Non c’è aria di disperazione, piuttosto di attesa rassegnata. Del resto, i malgasci sanno attendere meglio di qualsiasi altra cosa.
Giovanna saluta tanta gente e con ciascuno si ferma a scambiare qualche parola. È l’immagine del mondo di fuori, delle notizie che arrivano, forse è anche una speranza di intercessione, di libertà…chissà. Da lei veniamo a sapere che due ragazzini che fino a qualche giorno prima andavano a registrare nel suo studio, sono dentro per marijuana.“Ma ci pensi tu! Mi hanno detto che se non ti fai qualche canna non tiri fuori l’artista che c’è in te! Però adesso, qui dentro, che cosa gli toccherà tirare fuori, in mezzo a ‘sti banditi?”Attacchiamo bottone con un tipo che dice di essere il secondo imam di Ambositra. È arrivato in città 18 mesi fa, e dopo 8 è finito in carcere, proprio mentre la sua opera di conversione cominciava a dare frutti. L’accusa: violenze sessuali e torture a minore. Ma per lui la condanna che gli hanno inflitto non è che una jihad all’incontrario, una guerra santa contro la diffusione della fede islamica. Volevano un capro espiatorio e hanno trovato lui, ma l’Unione Musulmana Malgascia riuscirà a tirarlo fuori, Inshallah!. Mi ha quasi convinta della sua versione, quando Giovanna, che ne ha conosciuto la vittima, la smentisce con decisione:“É solo un pedofilo bugiardo!”. Ecco quindi come si mette la verità in equilibrio sul filo del dubbio! Ecco come si crea, un’altra verità, ridotta a un modo convincente di raccontare una menzogna!
Suona una campana. È l’ora della messa. Il prete non è arrivato, ma la preghiera si organizza comunque, in una piccola cappella. Tanti i presenti. Nella vita di fuori, la messa è una roba soprattutto da donne. Ma qui è tutto diverso. C’è più bisogno di Dio. Faccio scorrere lo sguardo sui loro volti: quale indizio potrebbe rivelare il crimine che hanno commesso? Che storia raccontano i loro occhi? Sono vittime? Della società, degli errori giudiziari, della miseria? O carnefici? Di persone più deboli, più povere? Guardandoli in volto, è difficile distinguere l’innocenza dalla colpevolezza. La vicinanza fisica di questi uomini te ne fa sembrare i delitti una possibilità incredibilmente remota. È sempre più facile condannare il protagonista di una notizia sul giornale che il tuo vicino di panca. Per lui, di cui senti il respiro e vedi gli occhi, sembri quasi portato a trovare una scusa. Un pensiero ingenuo che cancelli il suo passato. Un’accusa rivolta alla storia che assolva le sue colpe individuali.
Il canto che chiude la messa mi riporta alla realtà. Il laico che l’ha officiata chiede a Giovanna di presentarci e l’assemblea ci ringrazia della visita con un applauso. Mi accorgo dello straordinario che può aver rappresentato la nostra visita.
Sulla strada di casa, lo scopo di questo carcere sembra esaurirsi nella separazione della gente di dentro dalla gente di fuori. Il marcio dal sano. Nessun tentativo di rieducare, di raddrizzare, di riformare. Semplicemente una pausa tra un delitto e l’altro. Ma sappiamo anche che, al di là delle nostre impressioni, la vita là dentro deve essere molto più dura di quella che ci è sembrato oggi, che era pur sempre domenica.

La casa verde e gialla

In queste due settimane, io e Vince siamo stati un po’ in giro, cercando direzioni e inspirazioni per il corso futuro della mia ricerca. Abbandonata momentaneamente Ambohimahamasina, siamo quindi di stanza ad Ambositra, la capitale malgascia dell’artigianato, un bel po’ più a nord. In questa regione, ci sono infatti due siti che potrebbero offrire interessanti spunti per le mie riflessioni antropologiche sul turismo: uno è Soatanana, villaggio di campagna famoso per la tessitura della seta selvatica. L’altro è un insieme di villaggi abitati dall’etnia zafimaniry.
Gli zafimaniry, “la gente dei boschi”, sono famosi per la maestria nella scultura del legno. Vivono in villaggi di difficile accesso, in cui, più o meno regolarmente, ricevono le visite di turisti. Nel 2005, la loro arte è stata dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità. Prossimamente quindi, cercheremo di capire un po’ meglio di che cosa si tratta. Per il momento, siamo piuttosto impegnati a cercare un buon contatto per arrivare fino a lì, dato che andarci come semplici turisti, oltre ad essere smodatamente dispendioso, non sarebbe metodologicamente la scelta più adeguata.

E proprio cercando cercando, ci è capitato di bussare alla porta di una casa verde e gialla. La casa di Fanomezantsoa. Fanomezantsoa è una casa-famiglia per bambini figli di detenuti. La sua colonna portante si chiama Giovanna e viene da Venezia. Giovanna ha 24 anni e, come dice Vince, la faccia della scelta. Volto aperto e sorridente, uno sguardo che invita alla confidenza, è qui da 4 anni e ci ha investito tutto: le risorse e soprattutto il cuore. Gli italiani all’estero riescono ad essere bella gente. “Il mio è stato un puntiglio”, ci racconta, facendo rotolare velocissime le parole l’una dietro l’altra, nel suo accento veneziano. Quando parla malgascio cambia totalmente tono di voce, ma la velocità è sempre quella. In tutte e due i casi, fai fatica a starle dietro. “Perché, mi sono detta, se i genitori hanno commesso un crimine, a pagare devono essere i bambini, lasciati a vivere in strada, a cercarsi da vivere tra le bancarelle del mercato, destinati, presto o tardi, a finire pure loro in un circolo vizioso?” Così sono cominciate le sue visite in carcere, i primi contatti con le autorità per ottenere informazioni su chi veniva lasciato indietro, in una famiglia smembrata dal delitto, separata da una porta sbarrata a doppia mandata. Poco a poco, di bambini ne ha raccolti trenta, tra marmocchietti malfermi sulle gambe cicciotte e bambinette un po’ più grandi. Ognuno ha una sua storia, più o meno dolorosa. Ognuno ha bisogno: di riso, di amore e di ritrovare la fiducia. A Fanomezantsoa, i bambini hanno un posto in cui vivere, almeno fino a quando i genitori non torneranno in libertà; la possibilità di andare a scuola, un pasto caldo e il calore di una famiglia allargata.
Giovanna rifiuta l’idea di dipendere completamente dall’esterno, per cui, per assicurare continuità finanziaria al suo progetto, oltre a qualche aiuto intermittente della Diocesi di Venezia, si è data un po’ da fare: ha affiancato alla casa-famiglia una scuola di musica e uno studio di registrazione, un mulino per decorticare il riso e prossimamente anche una fattoria, per il momento ancora in costruzione. A ciò si aggiungono un paio di furgoni che nella stagione secca fanno servizio di taxy-brousse, con lei alla guida. Ed ecco spezzata pure una lancia in favore dell’emancipazione femminile: di donne che guidano un taxy-brousse, ad oggi io non ne avevo ancora viste, figurati poi una vazaha!. “Il problema è quando ti si rompe la macchina – continua - ovvero due volte su tre! Allora, almeno un po’, devi sapere dove mettere le mani!
Tutte queste attività fanno cassa per la casa e per la gente che ci lavora. Insieme a Giovanna, alla cura dei bambini ci pensano Lalla, un vero generale in gonnella, suo marito Elias, che è anche il presidente dell’associazione e Marie, la cuoca della casa.
Sin dal nostro primo incontro, Giovanna ci ha offerto, senza esitare, la possibilità di installare il nostro quartier generale presso di loro. Ci apre la porta e ci svolta la vita: telefona, contatta, riunisce, in breve, ci comincia a spianare un sentiero che porta dritto fino agli zafimaniry, probabilmente con un missionario amico suo, la settimana prossima.
Per ora, quindi, aspettando di cominciare questo nuovo cammino, è da qui, da una casa verde e gialla, con tante tante foto di girasoli, che vi scriviamo.

Convenevoli alla Betsileo

La prendo da lontano. Per cercare di spiegarmi la straordinaria formalità dei Betsileo di campagna, che sembrano affezionatissimi a tutta una serie di convenevoli, per i quali ogni scambio, dal saluto al ringraziamento, diventa una dolce litania a voci alterne. E la prendo da lontano perché in Italia li chiameremmo salamelecchi, termine che deriva dal saluto arabo: Salam Alekum! Sono gli arabi, difatti, quelli famosi per i saluti affettati, che, dicendo tutto e assolutamente niente, convocano opportunamente l’interlocutore, tutta la sua famiglia e l’onnipresente Allah. Gli arabi approdarono in Madagascar prima degli Europei, diciamo intorno al X- XI secolo. Vi introdussero la divinazione, la scrittura e la fabbricazione artigianale della carta. Il loro passaggio echeggia ancora nel saluto: Salama, un Salve! che è augurio di buona salute. Così, andando un po’ a ritroso nel tempo, ci si può forse fare una ragione della provenienza dei convenevoli alla Betsileo.

Immaginiamo che sia l’alba, ma potrebbe essere una qualsiasi altra ora. Mentre una parte del villaggio comincia a svegliarsi, l’altra è in piedi già da un pezzo. Due persone, che non necessariamente si conoscono, si incontrano:
R: Akory, akory aby – Come va? Come stiamo tutti?
B: Tsara, tsa manahy. Dia isika? Bene, senza inquietudini. E voi, com’è che si va?
R: Tsara, fa misaotra. Bene, grazie
B: Soa soa aby – Eccellente, eccellente
R: Soa soa – Eccellente, eccellente
B: Inon’aby vaovao? – Che novità ci sono?
R: Tsa misy. Inona ny vaovaonao? Niente di nuovo. E per te, che novità ci sono?
B: Tsa misy, fa mangina. Maresaka? Niente di nuovo, è tutto tranquillo. Che racconti?
R: Tsa misy, mangingina. Niente, tutto abbastanza tranquillo.

E così via…
Lo scambio, volendo, può allungarsi di almeno altre due o tre battute, tutte ovviamente dello stesso tenore. Alla fine, vince chi si stanca prima e abbandona il campo con un deciso: Eny ary, velooooma: D’accordo allora, arrivedeeeeerci!
Questo rituale è una cantilena sussurrata con voce soave. Se le persone che si incontrano sono in gruppo, riescono persino a intonarsela all’unisono, mentre si inchinano leggermente in avanti, le mani dietro la schiena e la testa rivolta verso un altrove dall’interlocutore, in segno di rispetto. Un teatrino che riesce a far sembrare il nostro secco: Ciao, come stai? Bene grazie, e tu? una roba da bifolchi!
Il lato negativo del convenevole alla betsileo è che spesso si innesca in automatico, e il peggio è quando ci si ritrova coinvolti proprio malgrado, metti caso alle prime luci dell’alba, quando hai messo il naso fuori di casa solo per una veloce scappata in bagno e non ci tieni proprio ad aprire tutti e due gli occhi, meno che mai ad azionare il cervello, eppure…TAC! eccoti ingaggiato con un festoso: “Vita soa ny alina!” – “è finita bene la notte!”, che fa da preludio a tutto il resto. A te, a mezza voce, non resta che protestare: “Mbola tsy vita!” (che in mente mia si traduce come: “Per me mica è finita, la notte!!”), così, mentre loro si fanno una risata, tu ti dilegui il più in fretta possibile.
Altro aspetto curioso, è che i malgasci adorano parlare per proverbi e frasi fatte. È un tratto distintivo della loro particolare qualità oratoria e sulle prime lascia davvero a bocca aperta. Come faranno mai, ti chiedi, ad avere sempre la frase giusta per il momento giusto? Semplice trucchetto: la frase era già scritta nella saggezza dei tempi, mica è il frutto della creatività personale! Ad esempio, la prima volta che mi hanno detto: “Mangina ny trano rehefa miala ianao”- “La casa sarà molto silenziosa, quando tu te ne andrai”, mi sono davvero emozionata. Proprio come quando, i primi tempi a Belfast, tutti rispondevano ai miei “Thanks” con un cordiale: “You are welcome!”. Allora levitavo di gioia, al constatare che i miei ospiti non perdevano occasione per ripetermi che erano proprio felici che fossi arrivata. Questa volta, dopo aver respinto con decisione il dubbio che si alludesse ironicamente alla mia instancabile chiacchiera, mi sono gongolata pensando che sarei mancata loro, quando fossi andata via. In realtà, anche se questo non ne sminuisce le ragioni, mi è toccato rimanerci un po’ male, e tutte le due volte: perché quelle frasi, affettuose e educate, non era pensando a me che erano state coniate.
Sono semplici modi di dire.

mercoledì 2 settembre 2009

Tauromachie

Ogni mondo è paese. È una frase qualunquista, lo so, ma quando viaggi, ne scopri il perché. Il mio amico Sisco qualche tempo fa mi diceva – e mi perdonerà se nel citarlo ci metto anche del mio - che l’obiettivo del viaggio è scovare le similitudini e meravigliarsi delle differenze. Simile con simile, anche qui ho trovato una specie di corrida, come nel paese che mi accoglie in quello che, ironicamente, mi piace chiamare esilio, soprattutto perché è a quel paese, che me ne ha dato la possibilità, che devo quest’altro.
Fin, bref…anche qui in Madagascar c’è una forma di tauromachia. Si chiama savika o tonolon’omby e si celebra soprattutto nel nord degli altipiani, proprio e quasi esclusivamente in questa stagione. Noi vi abbiamo assistito ad Ambositra, una cittadina di 30.000 abitanti a sud di Antananarivo.
Il fine della savika è tutt’altro che simile a quello della corrida, ma il mezzo è lo stesso: giocare con dei tori, dimostrando che l’uomo è superiore alla bestia. Tuttavia, mentre nel corrispettivo iberico la lotta è impari dal primo suono di trombetta, qui non ci sono né lame né bandierine né armature. In Madagascar l’uomo, a piedi nudi e armato solo di un bastone, può vincere solo se riesce a dominare la bestia con la forza. Il ché equivale, nel nostro caso, a prenderlo per la gobba. Ovviamente, inutile puntualizzare, la versione malgascia del toro è uno zebù.
La lotta avviene all’interno di un recinto non più ampio di 10 metri per 10 e circondato da uno steccato alto poco più di un uomo. Appollaiati sul bordo di questo, ci sono i giocatori, più o meno una quindicina. Dalla loro posizione di vantaggio, molestano discretamente lo zebù, se necessario scendono nell’arena e lo aizzano per fargli cambiare direzione, tentando, appena possono, di gettarcisi al collo. Ci sono 3 modi di acchiapparlo: per la gobba, per il collo o per le corna. Attenzione quindi alla forma di queste ultime. Lunghe e arcuate: positivo! Corte e massicce: marca male! Con le corna lunghe ci si lascia incastrare, mentre le corna corte permettono sempre allo zebù un certo margine di manovra. Essere afferrati e scossi é sempre meglio che ritrovarsi incornati e divelti, per cui: “ny olo napivarahana dia manana hery roa” - un uomo avvisato, vale per due, come dicono da queste parti.
Una volta addosso allo zebù, la destrezza sta nel cercare di rimanerci il più a lungo possibile, sfidando la resistenza dell’animale che, come in un rodeo, trascina il contendente in un alquanto pericoloso balletto. E se anche in Spagna quello che contano sono coraggio e sangue freddo, qui però il corpo a corpo c’è. E qui, lo zebù, una volta finito il gioco, esce dall’arena con le sue proprie zampe. Mica lo si uccide, mica lo si dissangua. I malgasci non sono mica matti, a fare a brandelli il loro braccio forte nel lavoro dei campi, il termometro più accurato della loro ricchezza, l’equivalente di una torta sempre pronta, da spartire quando c’è qualcosa da festeggiare, siano matrimoni, funerali o ritrovata salute. Lo zebù è moneta sonante su quattro zampe. Quanti toreri dipendono dalla vita del toro per andare avanti? Forse per questo, qui la tauromachia è ancora un gioco, non una guerra crudele. Tra l’uomo e la bestia c’è ancora un legame profondo, cementato dalla terra e dal lavoro, dal ruolo che lo zebù svolge nell’economia di una società rurale. Ed è questa complicità a dettare le regole della contesa.

Parole d'aria e parole di carta

Scrivere è un atto implosivo, un gesto che serve a crearsi interlocutori immaginari, a ripercorrere e congelare un filo dei pensieri. Se hai qualcuno con cui parlare, qualcuno in carne ed ossa, è facile che alle parole di carta si sostituiscano parole d’aria Il tempo della solitudine e della riflessione si riempie di dialoghi e di idee in movimento. Anche quelli lasciano tracce, forse meno tangibili, ma non meno profonde.
Vince mi ha raggiunto sull’isola rossa e mi accompagnerà per i prossimi tre mesi. Prendo una boccata d’aria prima di tornare a immergermi nel lavoro. Forse scriverò di meno?

mercoledì 19 agosto 2009

Il dentro e il fuori

Introspezione. Mi parlo in italiano per rilassarmi. Quando mi sento sola, mi faccio compagnia sognando la mia mamma. Da quando sono qui faccio sogni incredibili. Sarà per l’aria pura, per il silenzio della sera o perché vado a dormire con le galline (date le circostanze, quasi alla lettera, ah ah!), ma sto rivivendo tutta la mia vita al ralentì: in sogno incontro gente a cui non pensavo da anni, mi riappacifico con gli amici con cui ho litigato, mi ritrovo adolescente nella mia Guardia ridente e sonnacchiosa.
Di giorno invece, mi capita di provare una sensazione stranissima, come di sdoppiamento. Come se tutto questo non stesse succedendo a me. Faccio le cose e mi guardo facendole. Ci sono momenti che mi sembrano talmente irreali che, forse per impedirsi di esserne sopraffatto, il mio cervello prende le distanze, come in un continuo dejà-vu. Così mi trovo a guardare, con, per l’appunto, sereno distacco, quest’altra me stessa alle prese con un quotidiano che non c'entra niente con la sua vita ma in cui tutto però, è per lei assolutamente normale, dalla preghiera prima di mangiare al topo sotto il letto. È come un lungo sogno, in cui si susseguono albe e tramonti, alcuni con eventi talmente forti, per bellezza o differenza, o talmente semplici, che faccio fatica a crederci.
Sono tre settimane che non tiro uno sciacquone. Sono tre settimane che non vedo un rubinetto. Sono proprio tanti giorni che non mi guardo in uno specchio. Una settimana fa ho guardato negli occhi una vacca enorme che moriva sgozzata e non ho provato niente, né paura, né disgusto.
Sono io. Sono io? Sono proprio le cose piccole piccole a trasformarsi nelle cifre più incredibili di questa immersione in un mondo in cui tutto é una sensazione pura. In fondo lo zebù non c'entra niente. È lo sciacquone, la chiave!
La mattina mi sveglio piena di un senso di gratitudine, una gratitudine che se non fossi atea definirei religiosa, gratitudine per queste persone che mi permettono di stare qui, in una permanenza che per loro chissà cos’è, forse semplice ozio, eppure per me freme di tanti pensieri, riflessioni, domande, e alla fine mi ritrovo a condividere la loro vita e sto sempre ricevendo più di quello che mai riesca a dare. Loro del mio mondo non sanno nulla. Non lo dico così per dire. Non se lo immaginano nemmeno, perché ci sono momenti in cui non me lo immagino più nemmeno io, come si fa ad avere tante lavatrici e libri e metropolitane e insegne luminose e scaffali di supermercati, altro che racconti! Le esperienze rimangono sempre inafferrabili per chi non le ha vissute sulla propria pelle. Non importa il diluvio di aggettivi, i fiumi di parole, le centinaia di fotografie. Non riuscirò mai a imprigionare adeguatamente il senso di quello che sto vivendo qui, cosi come non riuscirò mai a spiegare a loro chi sono e da dove vengo. L'Europa È solo un posto al di là del mare. Senza un passato, con un'imprecisa identità, io non sono. Sto, seppur piena di vita. A volte dimentico anche perché. Me lo ricorda questo computer.
E poi succede pure un’altra cosa. Che in tutto questo, io sono doppiamente differente, dentro e fuori. Perché sono estranea alla loro cultura, perché sono straniera e pure fuori luogo, ma in fondo ero straniera anche a Parigi, dove mi abboffavo di pain au chocolat e mi stupivo che nei bistrot ci fossero tavoli da uno, o a Belfast, dove mangiavo patate e alzavo le mani per farmi perquisire entrando in un qualsiasi supermercato. Ma di differente qui c’è che io sono di un colore diverso, che proprio non ce la faccio a mimetizzarmi, in mezzo a tanti colori tutti uguali. Perché qui non sono biondi, rossi o castani. Sono proprio tutti malgasci, e io, almeno ad Ambohimahamasina, sono quasi l’unica che non lo è. Così che, quando dentro comincio a sentirmi uguale, sia per la ragione che sia, incluso perché quasi quasi mi farei un bel piattone di riso, ecco che ci pensano quelle vocette stridule e impertinenti a ricordarmi la differenza. Vazahaaaaa! – mi urlano. Cazzo, me l’ero dimenticato! Io sono bianca! E questo loro, anche quando io dentro mi comincio a sentire a casa, non smetteranno mai di vederlo.

Casa e bottega

Durante i giorni del Kridy, ho dovuto sloggiare da casa di Monsieur Emma, indaffaratissimo con tutto il parentame, per traslocare da Madame Alice, anche lei albergatrice della FIZAM. L’adattamento in questa nuova sistemazione ha richiesto un certo sforzo. Non solo perché le pulci hanno traslocato insieme a me. Non solo perché, oltre a loro, ho condiviso la stanza con dei sorci affamati che facevano apnee notturne nei sacchi di riso ammassati giusto ai piedi del letto. Ma perché quella da Madame Alice, persona dolcissima alla quale ho finito per affezionarmi, così come ai suoi 5, teneri e sempre presenti figli, non è una casa. Se c’è qualcosa di vero nel detto “casa e puteca” è questo. Madame Alice abita al piano di sopra, nella casa. Io, nella bottega. Il mio letto infatti, è sistemato dentro il suo negozietto, diciamo drogheria, che dà sulla strada principale del paesino. Per cui, dalle prime ore del mattino e per tutto il giorno, c’è una processione di clienti che vengono a bussare, e chi vuole un pezzo di sapone, chi una sigaretta, chi 200 Ariary d’olio. E se all’inizio comprano per necessità, molto presto cominciano a farlo solo per avere una scusa per gettare l’occhio. Perché dentro, protetta da una tendina all’uncinetto semitrasparente, ci sono io. Li sento parlare. Gli adorabili figli di Madame Alice, seduti sulla soglia come sfingi a guardia dell’antro, dicono: “Zitti, zitti, che c’abbiamo la vazaha”. E i clienti, quelli timidi, ti buttano dentro la testa: “Akory abi!”. Quelli più intrepidi entrano proprio tutti dentro e si mettono a sedere, come se niente fosse. Vogliono parlare inglese. Anche se tu stai, metti il caso, dormendo. Addio pennichella, addio letture, addio silenzio, addio privacy. Esibita come un animale raro che passa il suo tempo a fumare e scrivere, comincio quasi a rimpiangere le preghiere apocalittiche dei 3 pastori evangelisti. Cado in uno stato di vessazione psicologica, acuito dal caos da giorni di festa che frastorna la normalmente tranquillissima Ambohimahamasina. Assediata nella mia trappola, quando oso uscirne mi ritrovo gente ovunque: le strade si trasformano in latrine all’aria aperta, si sgozzano polli e si arrostisce caffè, l’odore del rum appesta, il bimbo piange, la musica non si ferma nemmeno un attimo. Insomma, un piccolo incubo. Che per fortuna, adesso, venerdì 7 agosto, è finito. I topi sono rimasti, ma io me ne sono andata. In pace, e con tutte le mie pulci. Madame Alice mi ha detto che le mancherò, che la vita senza di me tornerà ad essere tranquilla. Lo so, sarà tranquilla anche per me, la vita, lontana da casa sua. Peccato, proprio adesso che aveva cominciato a prendermi per la gola, con il godro-godro fatto in casa, un dolce di farina di riso con banane e noccioline! Tornerò, Madame Alice…alla fine, pure al topo c’avevo fatto l’abitudine!

Kridy: una solenne celebrazione betsileo

Prologo - I preparativi:
I preparativi erano cominciati già prima del mio arrivo, a metà luglio. La sala da pranzo di Monsieur Emma era ingombra di pesanti sacchi di riso, di cui giorno per giorno si stendeva una parte a seccare al sole, nella piazza del paese, su delle stuoie di rafia. Le donne lo decorticavano in grossi mortai. Intanto, gli uomini ridipingevano le case dei membri del clan, di giallo e di rosa. Addirittura, e in un tempo record, nel cortile della casa di Monsieur Emma faceva la sua apparizione un nuovo cubicolo doccia. “Sei fortunata! A fine mese ci sarà una grande festa. Il Kridy di Dada-be, mio padre” – mi dice Emma. Così comincio a guardarmi in giro, cercando di capire cosa sia, questo Kridy, o Lanonana se si preferisce il termine ufficiale, di cui parlano tutti.

La famiglia di Emmanuel (detto Emma) Ratsimbazafy, come già ho avuto modo di accennare, è molto influente qui ad Ambohimahamasina. Il sindaco è suo cognato, lui è impiegato al comune, e il padre, Dada-Be appunto, è un ray-amandreny, letteralmente “padre e madre” della comunità, un appellativo con cui ci si riferisce ai membri più anziani di ciascun clan. Dada-Be è stato sindaco a sua volta, e per molti anni. Adesso, di anni ne ha 80, un volto spigoloso, lo sguardo cupo e sempre assorto, la camminata lenta e la mente ancora lucida. Gira per il paese avvolto nella sua coperta a righe blu e bianche, che lo ripara dal freddo e gli dà l’aspetto di un piccolo re vagante alla ricerca di un trono rubato dagli anni. Ad aprile si è gravemente malato e l’hanno dovuto ricoverare per varie settimane. Ciononostante, la sua dura tempra ha beffato l’attacco del male, cosicché, per ringraziare il buon Dio e festeggiare la ritrovata salute, la sua famiglia ha deciso di organizzare una celebrazione a cui è invitata non solo tutta la comunità, ma anche la numerosa famiglia disseminata ai quattro cantoni dell’isola. Si prevedono un paio di migliaia di invitati, una cifra enorme, se si considera che Ambohimahamasina centro, da solo, non ne ospita che qualche centinaio. La celebrazione, il Kridy appunto, durerà 3 giorni e sembra proporre una interessante mescolanza tra usanze tradizionali betsileo e credenze cristiane.

Per l’occasione non si è badato a spese: sono state comprate 6.000 kapoka di riso (la kapoka è l’unità di misura locale, corrispondente ad una latta di latte condensato Nestlé (?). Un kilo equivale a 3 kapoka e mezzo. Facendo rapidamente i calcoli, dovrebbero essere circa 1700 kili!!) e si sacrificheranno due zebù, del valore di 2.500.000 di ariary ciascuno, ovvero poco meno di 2000 euro di bestie. A ciò si aggiungano un numero indefinito di polli, la benzina per far funzionare i gruppi elettrogeni che illumineranno la festa, la comunità mobilitata per offrire alloggio, etc. etc. etc. etc. Detto questo, riflettere sulla povertà del Madagascar, e di questa regione in particolare, sembra una battuta di cattivo gusto!

1 agosto, 6:30 del mattino – Il sacrificio del primo zebù: cibo per gli invitati

Un corteo di uomini che trascina faticosamente sul sentiero un nero e pasciuto zebù è il segno che le celebrazioni sono cominciate. La bestia è accompagnata da grasse risate, non so se di scherno o di divertimento.
Va detto che i malgasci fanno un uso molto speciale della risata. Normalmente, più che per divertimento, ridono per schermirsi, più di rado per schernire. Ciononostante, quando mi ritrovo ad essere io l’oggetto delle risate, cosa che capita abbastanza spesso e per le più incomprensibili ragioni, è l’irritazione a vincere su una più desiderabile autoironia.
Ad ogni modo…lo zebù viene portato sotto un albero accanto alla chiesa protestante, dove lo si sgozza. Il suo sangue si raccoglie in dei secchi. Poi lo si scuoia e, con gesti sapienti e impudichi, si mette a nudo il meccanismo molle e lattiginoso di quel fu organismo vivente, che viene ridotto così, in rigorosa sequenza, ai minimi termini di ciascuno dei suoi componenti. Da bestia a carne. Separate le trippe e le zampe, che vengono appoggiate su un letto di foglie, la brigata dei macellai, tutti uomini, trasloca in una casa diroccata a poca distanza per continuare la preparazione degli intingoli. Le operazioni si svolgono nella più assoluta mancanza di igiene, sulla nuda terra, senza teli protettivi, né guanti, né acqua, tra uomini che sputazzano tabacco da masticare, che vanno e vengono intorno ai tranci di sanguinolenti sparpagliati a destra e manca in mezzo agli intestini colanti le feci della bestia abbattuta.

Ore 11:00 - Tsodrano e Sokela, Offerte e discorsi
Mentre il primo zebù scompare a colpi di accetta, un poco più a nord i congiunti più stretti di Dada-Be montano, nella piazza principale del paese, un banchetto per il ricevimento degli invitati, che arrivano per gruppi familiari, ciascuno recante abbondanza di doni: un’offerta in danaro e sacchi di riso. La presentazione del dono prende il nome di Tsodrano, ossia benedizione: consiste in un discorso cantilenante e ben orchestrato, fatto sempre da uomini, che rivela la straordinaria eloquenza dei betsileo nell’arte del kabary (discorso ufficiale) nonché la loro irrefrenabile logorrea, ben combinata a una verace passione per il microfono e una scarsa dimestichezza con l’equalizzatore.
Il portavoce di ciascun gruppo dice da dove arrivano, di chi sono figli, perché sono venuti e che cosa hanno portato, in cifre e volumi. Tocca poi agli anfitrioni, che raccontano – vista la durata di ciascun intervento, oserei dire, PER FILO E PER SEGNO - la lunga vita di Dada-Be, la sua malattia, la dispendiosa organizzazione della festa e la quantità di cibo disponibile, in cifre e volumi. Ogni scambio dura almeno trenta minuti. Una volta terminato, gli invitati vengono condotti alla Trano-Maintso, un’area attrezzata a mensa dove vengono nutriti a ritmi da refettorio, intanto che il gruppo successivo è già pronto ai blocchi di partenza. I discorsi si succedono per tutta la giornata, sempre diversi ma sicuramente anche sempre uguali, interrotti in un paio di occasioni da balletti, in cui le donne, con dei cesti sul capo idealmente contenenti il riso, mimano lo scambio di doni.
In tutto questo frangente, Dada-Be, che uno immaginerebbe seduto in gloria al centro della festa, non è invece nemmeno presente. Come mi viene spiegato, in questo particolare tipo di celebrazione la famiglia del festeggiato si limita ad organizzare e accogliere gli invitati, senza fare nessun altro tipo di intervento diretto, né discorsi ufficiali né convenevoli di altro tipo.
Nello stordimento e nella monotonia dei discorsi, mi rimane appiccicata in testa una sola espressione: “Indrindra indrindra k’fa!”. Diventa l’ossessione della giornata: “Indrindra indrindra k’fa!”, vado ripetendo a pié sospinto. Al punto che, quando tocca pure a noi, ben assortito gruppettino di stranieri alla comunità, un po’ malgasci ma anche no, fare il nostro Tsodrano, non perdiamo l’occasione di condirci per benino il nostro kabary, seminando grasse risate (questa volta di divertimento), tra il pubblico ormai spossato da cotanta arte retorica.

Una società fortemente gerarchica

Lo svolgersi del Kridy è stato un’ottima occasione per scorgere la strutturazione fortemente gerarchica della società betsileo, una divisione che riguarda non solo caste diverse (è per inerzia accademica che uso il termine casta, ma non sono certa che sia il termine più adeguato), e quindi una relazione verticale, ma implica altresì differenze interne ad una medesima casta, in una relazione orizzontale che separa i diversi ranghi di autorevolezza.
Questa struttura è emersa già, ad un primo livello, nella separazione delle mense: gli invitati arrivati dalla campagna venivano nutriti in uno spazio all’aperto, su rozzi banchi di legno. Il loro pasto consisteva in enormi porzioni di riso e la carne dello zebù ucciso al mattino. Ho fatto un giro tra i tavoli: l’odore meno nauseabondo era quello della legna che ardeva. Il riso, già cotto, era stato di nuovo rimesso nei grossi sacchi di plastica bianca in cui era stato acquistato e da cui veniva scodellato nelle gamelle. La trippa, dall’odore stantio di viscere, era distribuita da secchi di plastica. Il resto della carne, dura e legnosa perché priva di macellazione, era mescolata al grasso e al sangue e cotta in grossi pentoloni di ferro. Terminato il pasto, gli invitati venivano fatti accomodare all’uscita, incasellati come greggi. Questo refettorio, detto Trano Maintso, era ubicato all’estremità inferiore del paese. I commensali, in vari turni, sono stati stimati intorno ai 1200.
In cambio, agli invitati di riguardo, ai membri più stretti della famiglia e ai notabili del paese, il trattamento offerto era di tutt’altro tipo: sulla sommità del paesino, proprio accanto alla piazza, era stata montata una vera sala da pranzo, nelle aule della scuola comunale. Le grosse tavole erano ricoperte da tovaglie e apparecchiate con cura. Da bere c’erano bibite gassate e whisky. Ogni quattro invitati c’era un portavivande ricolmo di riso - da cui ciascuno si serviva da solo-, un piatto con pezzi scelti di pollo in salsa, un brodo di verdure e un’insalata di carote. In questa seconda mensa, si sono avvicendati, in vari turni, circa 500 invitati, ma anche qui c’è stata una segmentazione, questa volta di tipo orizzontale. In una prima sala, da una sessantina di posti, sono stati serviti Dada-Be, i suoi parenti venuti dalla città e le autorità del paese, tra cui i tre vazaha, ossia io, Samantha, una ragazza inglese che ha vissuto vari anni qui e Romain, un volontario francese di una ONG locale. All’aperto, prendevano invece posto gli altri invitati, anche questi secondo un principio di turnazione. I colleghi malgasci di Romain, per esempio, non hanno mangiato insieme a noi, come sarebbe stato logico visto che avevamo fatto lo Tsodrano tutti insieme, ma nella sala accanto. E da qui, è facile immaginare anche che il pollo a loro destinato non fosse solo petto e cosce. Le donne della famiglia, ivi compresa la moglie di Dada-Be, servivano a tavola e hanno mangiato per ultime. Il pasto è stato consumato in poco più di mezzora e, fatta eccezione della preghiera iniziale, in quasi assoluto silenzio.
Dopo la cena, ha avuto inizio la festa: una discoteca all’aperto che è proseguita per tutta la notte, per tutta la notte, per tutta la notte, ai ritmi ipnotici delle musiche malgasy, sempre le stesse, sempre le stesse, sempre le stesse, tra fiumi di toaka, il velenoso rum locale, che scorreva a fiumi, ma proprio a fiumi!!

2 agosto: Il sacrificio del secondo zebù: una comunione familiare attraverso la carne.
A mezza mattinata del sabato, una nuova processione di uomini trascina un grosso zebù, sicuramente più grosso di quello del giorno precedente, lungo il sentiero principale del paese. Questa volta, però, è davanti alla casa di Dada-Be che si fermano. L’enorme bestia cornuta, nonostante i lacci alle zampe, cerca disperatamente di divincolarsi. Serve a poco: tempo qualche secondo e il sangue già sgorga a fiotti, formando prima una grossa macchia rossa sul sentiero e poi due grossi secchi di liquido schiumoso. Lo scuoiamento si ripete come da copione, ma questa volta la carne non servirà a sfamare gli invitati venuti da lontano, ma sarà distribuita, secondo un meticoloso rituale, tra tutti i membri della famiglia, un piccolo pezzo a testa. “Lo zebù è diventato carne, e quei pezzi di carne non sono solo cibo. Rappresentano qualcosa” – mi dice Monsieur Silvestre, oggi straordinariamente loquace. E difatti, la distribuzione riflette nuovamente la gerarchia delle caste e la posizione di ciascun gruppo all’interno del clan. Ai parenti di primo grado viene dato il vody hena, la parte posteriore della bestia, più pregiata e carnosa; alle famiglie dei generi, il cuore e i polmoni; gli intestini al lignaggio discendente dalle donne del clan…e così via…Il fegato rappresenta il patriarca stesso, Dada-Be, e tutti i suoi congiungi più stretti, insieme al loro pezzettino di carne, ricevono anche una striscia di quello. Il sezionamento della carne va avanti per ore, fino a pomeriggio inoltrato. I convenuti attendono, non senza qualche piccola protesta, che gli venga assegnata la porzione che gli spetta. “Avrei voluto starmene a casa, ma non potevo, perché bisogna onorare questo zebù, che rappresenta la nostra famiglia in tutta la sua struttura”.
Nofo Kena Mitampiavana: è la carne che ci rende parenti di sangue. Questo il nome del rituale. A festa finita, ognuno va a casa col suo pezzo, portandosi il sapore di questo momento di alleanza familiare, o la delusione per esserne stato, per motivi sempre alquanto indecifrabili, escluso.

Post scriptum: Anche al mio gruppettino è toccato un pezzo di Nofo Kena. Dopo la carneficina del giorno, non mi sono proprio curata di sapere chi ne avesse raccolto l’onore. Ma l’atmosfera di questa festa ha significato per me un piccolo passo verso l’integrazione nella comunità di Ambohimahamasina. Il giorno dopo infatti, Monsieur Emma mi ha invitato a mangiare lo stufato di zebù alla tavola del patriarca. Non un semplice invito in famiglia, peraltro il primo che ricevo, ma una grande prova di stima di cui spero di essere all’altezza. E detto fra noi, non era nemmeno così male, il povero zebù.

domenica 26 luglio 2009

Fotoana betsileo: Tsa misy vaovao

21 luglio: Sono trascorsi 8 giorni da quando sono arrivata a Ambohimahamasina.
Cosa sono 8 giorni in confronto all’eternità? Le giornate sono trascorse lunghe e monotone, ravvivate da piccoli eventi di grande importanza: il mercato, una lezione di inglese che ho fatto venerdì, l’arrivo di due straniere, purtroppo andate via troppo in fretta, lo zoma mafinatra ovvero la febbre del venerdì sera, la vendita di un maiale, la messa domenicale.
Ho tutto il tempo di rielaborare ogni gesto, ogni parola, ogni incontro.

Ogni giorno mi sveglio verso le 7:00. Faccio colazione: caffè e biscotti o più di frequente mofo gasy, delle brioscine di farina di riso. La mattinata mi si prepara davanti come un lungo sentiero che non conduce da nessuna parte. Vado a fare una passeggiata? Leggo un po’? Vado a cercarmi qualche membro del FIZAM?
Ogni giorno cerco di fare dei programmi, che puntualmente naufragano nel niente. Manao programme? Inona ny programme? Mi chiedono tutti. Io ci provo, a organizzarmi un po’, ma tutto è rimandato a un indeterminato dopo che non arriva mai e l’agenda è piena di cancellature. Ci vediamo dopo, mi dicono, siano le tre del pomeriggio o qualche altro momento non ben definito, purché non immediatamente. Tutti sembrano estremamente occupati nelle loro faccende: le donne in casa, gli uomini nelle risaie, i bambini in strada a giocare.
Mi ritrovo a fare avanti e indietro tra la casa dove sono alloggiata e la piazzetta del paese. In questa tranquilla monotonia, parlo con tanta gente. Con i bimbetti, che giocano a far parlare le pietre; con le loro mamme che lavano i panni alla fontana o si intrecciano e pettinano i capelli. C’è chi mi chiede della mia famiglia, chi vuole lezioni di inglese, chi mi chiede qualche espressione in italiano, chi mi vuole vendere delle noccioline. Fumo una due e tre sigarette godendomi il tepore del sole, mangio delle barrette di cioccolata che mi sono portata dalla città e che, purtroppo, cominciano a scarseggiare. Guardo la valle. Intanto si è fatta ora di pranzo, ma il bilancio del lavoro svolto è piuttosto scarso. Ho parlato con tutti, eccetto con chi potrebbe darmi una mano a vederci più chiaro in questa ricerca. Loro, i miei informanti chiave, mi evitano educatamente, per caso o di proposito, questo ancora non l’ho capito.

Di turisti, nemmeno l’ombra. Il fenomeno è purtroppo così inconsistente da rendere le mie domande ridicole. Sono io l’unica turista in questo villaggio!! Troppo poco per sconvolgerne i ritmi! Eppure, io sono convinta che sotto tutta questa cenere, un po’ di brace ancora c’è!

Le ore si snocciolano una ad una come i grani di un rosario. Aspetto l’ora di luce per ricaricare il computer. Aspetto l’ora di pranzo e l’ora di cena. Aspetto che arrivi il tramonto per cercare di intercettare qualcuno che, a fine giornata, abbia voglia di raccontarmi qualcosa.

È ovvio, anche le conversazioni che non portano da nessuna parte hanno la loro magia. Imparo tante cose, sulla vita di questo paesino addormentato tra le risaie. Ma la pazienza stuzzica la frustrazione, la tranquillità si fa attesa e l’attesa insinua il dubbio. Che cosa ci faccio qui?

Dentro di me lottano due sentimenti opposti e discordanti. Dal punto di vista umano, sono felice di stare qui, di conoscere questa gente e di farmi conoscere da loro. Ogni momento sembra ridurre le apparentemente enormi distanze culturali che ci separano. È uno scambio continuo, pieno di sorprese. Dal punto di vista accademico, invece, poco di nuovo sotto il sole. La ricerca procede affannosamente. Le persone sono distanti, diffidenti, in particolar modo gli anziani: più cerco di parlare loro, più si allontanano. Forse mi stanno mettendo alla prova, forse mi stanno insegnando ad essere come loro, sempre indiretta, sempre allusiva. Provo ad imparare a porre le domande girando intorno alle cose.

L’altro giorno parlandocon Haja, una delle guide del FIZAM, ho scoperto che uno degli iniziatori del turismo ad Ambohimahamasina, qualche anno prima della creazione della FIZAM, è un certo Monsieur Silvestre. Guarda caso, Monsieur Silvestre abita proprio di fronte. Così lunedì vado da lui, di buon mattino. Gli spiego chi sono e cosa faccio ad Ambohimahasina. “Merci d’avance” – mi dice – “Senza qualcuno che ci dà dei riscontri, quello che facciamo non avrebbe senso”. Parole gentili, che mi lasciano sperare. Tuttavia, mi dice, immediatamente non gli è possibile intrattenersi con me. Domani, cioè oggi, deve andare a Fianar per delle commissioni, per cui potremo parlare al suo ritorno. Lo ringrazio per la disponibilità e torno a casa, carica di attesa.

Oggi lo incontro in giro per il paesello. Non è partito ancora, mi dice, forse partirà domani. Gli rinnovo cortesemente l’invito a fare due chiacchiere. “Al mio ritorno”, mi dice, anche se poi questo ritorno è tanto imprecisato quanto la partenza. Nel pomeriggio, lo vedo seduto al sole, da solo, nella piazza del paese. Decido di mostrargli che so avere pazienza. Vado a sedermi vicino a lui con il mio libro. Per due ore rimaniamo in silenzio. Lui non mi rivolge mai la parola, io continuo a leggere il mio libro.

Così, è passato oggi, e forse passerà anche domani, e magari chissà…tutta la settimana. Qualcuno mi aveva avvertito: “Vedrai! Questa gente non parla!”. Adesso comincio a capire.
Imparo ad avere pazienza, ed un sorriso idiota sulla faccia.

Pulci

Immancabile, nelle mie notti malagasy, e a volte anche nei giorni, la loro invisibile e snervante presenza. Passeggiano sul mio corpo lasciando piccole punture rosse e fastidiose. Quante sono? Una, dieci, un battaglione? Le cerco con la torcia, fumo una sigaretta per decidere una strategia, ritorno a letto e appena prendo calore, la loro danza ricomincia. Forse non ho chiesto loro permesso? Azafady, madame le parasy! Non so come liberarmene! Magari do fuoco alla stanza?
Se almeno sapessero scrivere, almeno potrei dettargli qualche impressione…

p.s Se avete ricette casalinghe antipulci, please help!!

Miantso Koka

È successo la notte del mio arrivo a Ambohimahamasina e meno male che qualche giorno prima me ne aveva parlato un amico o sarei morta di paura!
Nei villaggi di campagna, non essendoci polizia né gendarmi, la sicurezza è organizzata su base locale, in ronde autogestite che, all’occorrenza, vengono chiamate a difendere le proprietà dei contadini. La minaccia più diffusa è l’attacco dei banditi, normalmente ladri di bestiame. Quando qualcuno li avvista, lancia la koka, un avviso di allarme che serve a chiamare al raduno. Tutti gli uomini del villaggio sono obbligati a rispondere, pena una multa imposta dal comune.
Quella sera, la tranquillità della notte viene rotta dalle grida della koka. Monsieur Ema, il mio ospite, lascia la tavola e si veste in tutta fretta. Passa qualche minuto e le campane si mettono a suonare freneticamente. Dalle case addormentate nel buio escono gruppi di persone. Si teme un furto di bestiame!
Il mattino seguente mi spiegano che si è trattato piuttosto di una lite tra vicini e c’è pure scappato il morto! Il lunedì, giorno di mercato, si sa, si alza sempre un po’ gomito, e queste cose possono capitare! La sfortunata vittima aveva fatto delle avances non proprio gradite alla moglie del vicino geloso, che non ha trovato niente di meglio da fare che assestargli un colpo non proprio calibrato di accetta. Fine della storia. Il malcapitato è finito all’ospedale ed è deceduto poche ore dopo. In questi casi, il comune prevede l’applicazione del DINA, una forma di diritto tradizionale che alla gattabuia di stato aggiunge un risarcimento di circa 3000 € per la famiglia della vittima. Se l’aggressore non può onorare direttamente il debito, sarà la sua intera famiglia, che qui è piuttosto allargata, a doversene occupare. Nel nostro caso, sarebbe interessante capire come si risolverà la vicenda: pare infatti che l’aggressore sia niente di meno che il fratello del sindaco, un uomo piuttosto potente, in questa piccola comunità.

Eto, Ambohimahamasina: io sono qui.

16 luglio: Ambohimahamasina è il villaggio in cui condurrò parte della mia ricerca. Forse è un po’ prematuro utilizzare l’indicativo. Forse dovrei dire vorrei. Sono arrivata da quattro giorni e comincio appena a guardarmi intorno. Non so da dove cominciare, lo confesso…ma qualche idea mi verrà.
Ambohimahamasina è un villaggio di campagna a est della cittadina di Ambalavao, da cui dista 42 chilometri, ossia un’ora e mezza di taxy brousse. Conta circa 20.000 abitanti, che sembrerebbero tantissimi se non fossero suddivisi in ben 15 piccoli agglomerati, sparpagliati su una superficie di svariati chilometri. Nel villaggio c’è l’unico ospedale della zona, con un solo medico e due infermieri che si prendono cura di tutti; due scuole elementari, una statale e una privata cattolica, un liceo e due o tre chiese di confessioni diverse, che in Madagascar, quando tutto manca, un pastore di anime lo trovi sempre.

I giorni più animati della settimana sono il lunedì e il giovedì, quando c’è il mercato. In realtà succede che gli uomini si ubriacano più degli altri giorni, visto che la merce più venduta è il nefasto toaka gasy, un rum locale, etilico e a buon mercato, ufficialmente illegale. Per il resto, come amano dire i locali, è tutto molto, molto tranquillo.
La giornata comincia presto, alle cinque e mezza del mattino e finisce altrettanto presto, poco dopo il calar del sole, ossia verso le sei. Nelle case, e non in tutte, l’elettricità c’è solo un’ora al giorno, regolata da un generatore a gasolio comunale a cui bisogna essere abbonati. Ogni lampadina costa 3000 Ariary al mese (circa un euro). Nell’ora di luce, i bambini si riuniscono nelle poche case che hanno un lettore DVD e guardano qualche video musicale o qualche improbabile film d’azione. I film sono sempre in francese, ma caso strano, qui lo parlano veramente in pochi. Il miracolo delle immagini in movimento funziona sempre! Ad Ambohimamasina la televisione di stato non prende e non arrivano nemmeno i giornali. Non c’è rete telefonica, tranne che su una collina a circa mezzora di cammino, e il posto internet più vicino è a Fianar, a 60 km. La mia voce arriverà come un’eco, con giorni, forse settimane di ritardo.

Ad Ambohimamasina sono arrivata sulle orme del FIZAM; un’iniziativa di turismo solidale completamente gestita da malgasci della quale vorrei studiare organizzazione e obiettivi. Ma per il momento di turisti, a parte la sottoscritta, non se ne vede nessuno. Il posto senza dubbio merita: una valle maculata di risaie, circondata da montagne sacre e orlata da un corridoio di foresta vergine che separa gli altipiani, paese dei Betsileo, dalle terre dei Tanala, l’etnia di raccoglitori della foresta. La notte, al buio, il cielo ti sovrasta come se volesse inghiottirsi. C’è un numero di stelle da fantascienza. Sembra quasi di poterle toccare, tanto sono splendenti e vicine.

Per essere più addentro all’oggetto dei miei studi, ho scelto di alloggiare con una famiglia. In realtà non so quanto si tratti di una sistemazione definitiva e per due ragioni: la prima, è che mi riesce difficile spiegargli che ho davvero voglia di restare qui per qualche tempo, per cui credo che negozierò un tetto di quindici giorni in quindici giorni. Ho come la sensazione che i ricercatori gli facciano un po’ paura, per cui mi sto spacciando per una turista che ha voglia di imparare il malgascio ma, onestamente, non so quanto questa storia reggerà. La seconda ragione è che non vorrei essere causa di potenziali gelosie tra le famiglie, quelli che mi ospitano e quelli che non possono farlo. Per cui, finché mi è possibile, cercherò di fare a turno, così nessuno si offende e quel po’ di soldini che inevitabilmente porterò in paese si distribuiscono un po’ tra le varie famiglie.

Per il momento quindi sono a casa di Monsieur Ema e Madame Flore, albergatori della FIZAM, associazione per lo sviluppo eco - turistico di Ambohimahamasina. Monsieur Ema è un agricoltore e un impiegato del comune. Accidentalmente, è anche il cognato del sindaco, che è poi il marito della presidentessa dell’associazione. Il mio alloggio è una stanzetta al piano terra della loro casa tradizionale, detta varangue per le sue belle balconate di legno intarsiato. Le condizioni sono spartane ma tutto sommato confortevoli: il vano doccia e il bagno sono all’esterno. Naturalmente l’acqua corrente c’è solo alle fontane comunali, per cui ci si lava con i secchi e l’acqua calda si scalda sulla brace a carboni e solo su richiesta. L’unica nota dolente di questa sistemazione è che accanto a me ci sono 3 giovani apprendisti pastori evangelici, che passano le albe e le notti mormorando ferventi litanie che probabilmente simulano battaglie con diavoli immaginati e reali tentazioni. Fatto è, che alla luce flebile della candela e nel silenzio interrotto solo dal latrato di qualche cane, i loro mugugni e gemiti conferiscono all’atmosfera un non so che di tetro, che non concilia esattamente il sonno.

Erica

A Fianarantsoa (Fianar per gli amici), faccio un paio di giorni di pausa prima di raggiungere la provincia di Ambalavao. Lontana dai corridoi polverosi del Ministero, dai formulari da riempire e dalle domande senza risposta, approfitto di un momento di serenità per recuperare il senso di questo viaggio. Sono ospite di Gabriele, un ragazzo palermitano che vive qui da un paio d’anni. Lui è via, per cui mi trovo sola con Erica, la sua compagna malgascia. Detto tra parentesi, Erika in malgascio è anche il nome di una pioggerella sottile che cade in inverno sugli altipiani.
Erica ha appena cominciato a studiare l’italiano e parla poco il francese. Nemmeno io ho tanta voglia di parlarlo, per cui siamo un assortimento perfetto. Passiamo ore di una semplicità così piena di piccoli eventi che è difficile da descrivere. Andiamo al mercato a fare la spesa. Prepariamo insieme il ravitoto, un piatto locale a base di foglie di manioca e carne, generalmente maiale, ma che noi decliniamo sul pollo. Erica ci aggiunge un tocco esotico, polpa di cocco grattugiata. Tena tsara! E tra un pasto e un’infusione, un esercizio di grammatica e persino un film di Muccino, ci scambiamo un po’ delle nostre vite, in ore di conversazione che va dalla religione ai matrimoni, in una lingua che non so qual è, però ad ogni parola che pronuncio, ad ogni faticosa comprensione, si accompagna un senso di euforia, come quando togli le rotelle alla bicicletta e ti accorgi che riesci a stare in equilibrio o quando al mare ti accorgi che sai stare a galla.
In Madagascar mi sento tornare bambina: devo riscoprire ogni gesto, trovare i nomi alle cose, imparare com’è che si fa. Non sono solo le parole a mancarmi… mi manca tutto il resto, tutto l’universo di senso dentro il quale i suoni cominciano ad avere un significato. E come un bambino, quando vedo negli occhi di chi mi ascolta quel sorriso di condivisione, quell’assenso che significa: “Si, è così! Ho capito quello che vuoi dire!”, mi si riempie il cuore di una felicità pura e inspiegabile Fatico in questo mare di sillabe per me sconosciute, questi echi di parole che sembrano tutte uguali e cominciano tutte per M. Annaspo, balbetto…poi, all’improvviso, non so come, comincio a stare a galla. Erica mi guarda, ha capito e mi risponde. Mi aggrappo a un verbo, a un aggettivo, per cominciare a decifrare. Galleggio…posso provare ad andare più lontano.
Quando lascio Fianarantosa ho tanto calore nel cuore. Misaotra indrindra, Erica! Mi hai dato ancora più voglia di non smettere di cercare…

Taxy Brousse

In Madagascar il vazaha (straniero bianco) si può muovere in due modi: o fitta un 4x4 o prende il taxy brousse. In verità, ci sono anche i voli interni e due linee ferroviarie in funzione, ma i primi sono troppo cari e le seconde, quando portano dove vuoi andare, sono una scommessa, per cui si finisce per adattarsi alle circostanze. Le vetture private sono piuttosto scarse, per cui l’autostop non è da prendere in considerazione.

Per spostarsi in taxy brousse è sempre meglio prenotare un po’ in anticipo, ci consigliano le guide di viaggio, così si possono scegliere i posti migliori. Io, che decido sempre all’ultimo momento, non riesco mai a farlo. Questa volta però sono riuscita a procurarmi il numero di telefono di una compagnia di trasporto, Sonatra, per cui li ho chiamati il giorno stesso della partenza e sono riuscita ad assicurarmi il mitico posto n°3!!

Morfologia del taxy brousse: un furgoncino tipo mini-van, con 12 posti a sedere, 3 su ogni fila. In realtà, ci si sta almeno in 15, dato che si vendono anche i posti accanto al guidatore, più o meno ambiti a seconda di quanto si voglia stare comodi (sono un po’ più spaziosi) e che non si temano le curve (la visuale è sconsigliata ai cardiopatici). Sui tragitti regionali, generalmente più brevi, di persone ce ne stanno fino a 20, stretti stretti come sardine pur di non lasciare a piedi nessuno.. I posti sono numerati e i più gettonati sono quelli nella fila immediatamente dietro al conducente: il 3, il 4 e il 5. Il 3 è quello proprio dietro al posto di guida: il più sicuro in caso di incidente, o almeno così dicono, non so se per sollevarmi o per farmi sentire una privilegiata. Il 5 ha l’inconveniente di essere accanto al portellone, pessima posizione a causa degli spifferi. Nel 4 non hai niente a cui appoggiarti, a parte il vicino, se ti senti in vena di confidenza e una cauta promiscuità.

Per richiedere una pausa tecnica si usa dire: “Olombelona tsy akoho” (gli uomini non sono polli): è così che i malgasci comunicano che devono far pipì. In quelle circostanze si scopre un uso inedito del pareo, lamba in malgascio, che le donne, anche quelle giovani, che vestono all’occidentale, portano sempre legato in vita. Appena l’auto sosta, quasi sempre in mezzo al niente, il lamba si trasforma in un pratico paravento per coprirsi da sguardi indiscreti mentre ci si accovaccia per liberarsi.

Quando si viaggia in taxy brousse è sempre bene fare scorta di viveri e bibite, in caso la vettura rimanesse in panne (cosa che accade la metà delle volte) in mezzo al suddetto niente. Per me, il viaggio ha l’odore inconfondibile della Bonbon Anglais, una bibita gasata spacciata per limonata, 100% malgascia, prodotta però con la benedizione dell’onnipresente Coca Cola company, che anche qui monopolizza il mercato delle bibite in bottiglia. Dolce come una giuggiola sciolta, la Bonbon Anglais funziona meglio di un deodorante per auto. Basta stapparla e tutti sapranno immediatamente che la stai bevendo. Sconsigliata se si viaggia in incognito. I malgasci la adorano, soprattutto mescolata a un po’ di toaka, il terribile rum locale.

I bagagli vengono caricati in cima alla furgonetta, meticolosamente ricoperti da un grosso telo di plastica e assicurati da vari giri di corda. C’è di tutto: scatole, ceste di pollame, gamberetti, gusci di tartarughe, mobilio, una volta mi è capitato persino il motore di un auto. Riuscite a sentire gli ondeggiamenti del furgone stracarico ad ogni curva? E l’odore di bruciato dei freni? Ah, benedetti autisti!!

9 luglio: Finalmente posso lasciare Antananarivo. Mi aspettano almeno 9 ore di viaggio per percorrere i circa 400 e rotti kilometri che mi separano da Fianarantsoa. Non so se per coraggio o per codardia, ma decido di viaggiare di notte.
L’appuntamento per la partenza è alle 17. In realtà so già che il mezzo non parte finchè non è pieno, per cui arrivo alla stazione armata di pazienza. Ecco, un viaggio in taxy brousse è un buon modo per imparare il valore del tempo all’africana, come diceva anche Kapucinsky. Ti insegnano ad aspettare senza innervosirti, ti fanno perdere l’abitudine di fare domande insolenti e che ti identificherebbero subito per quello che sei, un bianco figlio di una società in cui il tempo è denaro. Un minuto, un’ora, domande come: “Quando parte?” per i malgasci non sembrano importare. Si accomodano in vettura e aspettano senza batter ciglio. Innervosirsi non è roba da malgasci.
Alle 18:30 comincia il rituale di impacchettamento dei bagagli sul tetto, segno inequivocabile che la partenza si fa imminente. Però… Il y a un problème!! Un passeggero, che ha pure pagato il biglietto anticipato, ha deciso di prendersela comoda. Mentre aspettiamo mi rendo conto che nemmeno quella famosa frase: “Sbrigati, che l’autobus mica aspetta!”, tanto usata dalle mamme per schiodarti dal letto nei giorni di scuola, qui è poi tanto vera. Il signor passeggero arriva dopo un’ora buona. Alefaaaaa, si parte!!
Sono un po’ inquieta per il viaggio. Per distrarmi mi metto a chiacchierare con un altro passeggero, uno studente di diritto. Si sente di rassicurarmi. Lui, di incidenti in taxy-brousse ne ha già fatti un paio. Da allora, prende sempre il posto accanto al guidatore, così tiene un occhio sulla strada. Però – mi dice - ultimamente c’è da stare tranquilli: con l’aumento della benzina (che costa uguale che in Europa, un euro al litro, che qui è un’enormità) si riduce la velocità, per cui il conducente ci penserà due volte prima di spingere a tavoletta. Vorrei credergli, ma la sua profezia è vera solo a metà: quando il conducente si stanca di ascoltare e riascoltare a tutto volume il suo unico CD, si fa una canna e comincia a pigiare sull’acceleratore. Alle cinque e mezza del mattino, praticamente in piena notte, arriviamo a Fianarantsoa.
Che non fosse questo l’inconveniente dei taxy brousse? Partono sempre tardi e, quando arrivano, è ancora troppo presto!