mercoledì 19 agosto 2009

Il dentro e il fuori

Introspezione. Mi parlo in italiano per rilassarmi. Quando mi sento sola, mi faccio compagnia sognando la mia mamma. Da quando sono qui faccio sogni incredibili. Sarà per l’aria pura, per il silenzio della sera o perché vado a dormire con le galline (date le circostanze, quasi alla lettera, ah ah!), ma sto rivivendo tutta la mia vita al ralentì: in sogno incontro gente a cui non pensavo da anni, mi riappacifico con gli amici con cui ho litigato, mi ritrovo adolescente nella mia Guardia ridente e sonnacchiosa.
Di giorno invece, mi capita di provare una sensazione stranissima, come di sdoppiamento. Come se tutto questo non stesse succedendo a me. Faccio le cose e mi guardo facendole. Ci sono momenti che mi sembrano talmente irreali che, forse per impedirsi di esserne sopraffatto, il mio cervello prende le distanze, come in un continuo dejà-vu. Così mi trovo a guardare, con, per l’appunto, sereno distacco, quest’altra me stessa alle prese con un quotidiano che non c'entra niente con la sua vita ma in cui tutto però, è per lei assolutamente normale, dalla preghiera prima di mangiare al topo sotto il letto. È come un lungo sogno, in cui si susseguono albe e tramonti, alcuni con eventi talmente forti, per bellezza o differenza, o talmente semplici, che faccio fatica a crederci.
Sono tre settimane che non tiro uno sciacquone. Sono tre settimane che non vedo un rubinetto. Sono proprio tanti giorni che non mi guardo in uno specchio. Una settimana fa ho guardato negli occhi una vacca enorme che moriva sgozzata e non ho provato niente, né paura, né disgusto.
Sono io. Sono io? Sono proprio le cose piccole piccole a trasformarsi nelle cifre più incredibili di questa immersione in un mondo in cui tutto é una sensazione pura. In fondo lo zebù non c'entra niente. È lo sciacquone, la chiave!
La mattina mi sveglio piena di un senso di gratitudine, una gratitudine che se non fossi atea definirei religiosa, gratitudine per queste persone che mi permettono di stare qui, in una permanenza che per loro chissà cos’è, forse semplice ozio, eppure per me freme di tanti pensieri, riflessioni, domande, e alla fine mi ritrovo a condividere la loro vita e sto sempre ricevendo più di quello che mai riesca a dare. Loro del mio mondo non sanno nulla. Non lo dico così per dire. Non se lo immaginano nemmeno, perché ci sono momenti in cui non me lo immagino più nemmeno io, come si fa ad avere tante lavatrici e libri e metropolitane e insegne luminose e scaffali di supermercati, altro che racconti! Le esperienze rimangono sempre inafferrabili per chi non le ha vissute sulla propria pelle. Non importa il diluvio di aggettivi, i fiumi di parole, le centinaia di fotografie. Non riuscirò mai a imprigionare adeguatamente il senso di quello che sto vivendo qui, cosi come non riuscirò mai a spiegare a loro chi sono e da dove vengo. L'Europa È solo un posto al di là del mare. Senza un passato, con un'imprecisa identità, io non sono. Sto, seppur piena di vita. A volte dimentico anche perché. Me lo ricorda questo computer.
E poi succede pure un’altra cosa. Che in tutto questo, io sono doppiamente differente, dentro e fuori. Perché sono estranea alla loro cultura, perché sono straniera e pure fuori luogo, ma in fondo ero straniera anche a Parigi, dove mi abboffavo di pain au chocolat e mi stupivo che nei bistrot ci fossero tavoli da uno, o a Belfast, dove mangiavo patate e alzavo le mani per farmi perquisire entrando in un qualsiasi supermercato. Ma di differente qui c’è che io sono di un colore diverso, che proprio non ce la faccio a mimetizzarmi, in mezzo a tanti colori tutti uguali. Perché qui non sono biondi, rossi o castani. Sono proprio tutti malgasci, e io, almeno ad Ambohimahamasina, sono quasi l’unica che non lo è. Così che, quando dentro comincio a sentirmi uguale, sia per la ragione che sia, incluso perché quasi quasi mi farei un bel piattone di riso, ecco che ci pensano quelle vocette stridule e impertinenti a ricordarmi la differenza. Vazahaaaaa! – mi urlano. Cazzo, me l’ero dimenticato! Io sono bianca! E questo loro, anche quando io dentro mi comincio a sentire a casa, non smetteranno mai di vederlo.

Casa e bottega

Durante i giorni del Kridy, ho dovuto sloggiare da casa di Monsieur Emma, indaffaratissimo con tutto il parentame, per traslocare da Madame Alice, anche lei albergatrice della FIZAM. L’adattamento in questa nuova sistemazione ha richiesto un certo sforzo. Non solo perché le pulci hanno traslocato insieme a me. Non solo perché, oltre a loro, ho condiviso la stanza con dei sorci affamati che facevano apnee notturne nei sacchi di riso ammassati giusto ai piedi del letto. Ma perché quella da Madame Alice, persona dolcissima alla quale ho finito per affezionarmi, così come ai suoi 5, teneri e sempre presenti figli, non è una casa. Se c’è qualcosa di vero nel detto “casa e puteca” è questo. Madame Alice abita al piano di sopra, nella casa. Io, nella bottega. Il mio letto infatti, è sistemato dentro il suo negozietto, diciamo drogheria, che dà sulla strada principale del paesino. Per cui, dalle prime ore del mattino e per tutto il giorno, c’è una processione di clienti che vengono a bussare, e chi vuole un pezzo di sapone, chi una sigaretta, chi 200 Ariary d’olio. E se all’inizio comprano per necessità, molto presto cominciano a farlo solo per avere una scusa per gettare l’occhio. Perché dentro, protetta da una tendina all’uncinetto semitrasparente, ci sono io. Li sento parlare. Gli adorabili figli di Madame Alice, seduti sulla soglia come sfingi a guardia dell’antro, dicono: “Zitti, zitti, che c’abbiamo la vazaha”. E i clienti, quelli timidi, ti buttano dentro la testa: “Akory abi!”. Quelli più intrepidi entrano proprio tutti dentro e si mettono a sedere, come se niente fosse. Vogliono parlare inglese. Anche se tu stai, metti il caso, dormendo. Addio pennichella, addio letture, addio silenzio, addio privacy. Esibita come un animale raro che passa il suo tempo a fumare e scrivere, comincio quasi a rimpiangere le preghiere apocalittiche dei 3 pastori evangelisti. Cado in uno stato di vessazione psicologica, acuito dal caos da giorni di festa che frastorna la normalmente tranquillissima Ambohimahamasina. Assediata nella mia trappola, quando oso uscirne mi ritrovo gente ovunque: le strade si trasformano in latrine all’aria aperta, si sgozzano polli e si arrostisce caffè, l’odore del rum appesta, il bimbo piange, la musica non si ferma nemmeno un attimo. Insomma, un piccolo incubo. Che per fortuna, adesso, venerdì 7 agosto, è finito. I topi sono rimasti, ma io me ne sono andata. In pace, e con tutte le mie pulci. Madame Alice mi ha detto che le mancherò, che la vita senza di me tornerà ad essere tranquilla. Lo so, sarà tranquilla anche per me, la vita, lontana da casa sua. Peccato, proprio adesso che aveva cominciato a prendermi per la gola, con il godro-godro fatto in casa, un dolce di farina di riso con banane e noccioline! Tornerò, Madame Alice…alla fine, pure al topo c’avevo fatto l’abitudine!

Kridy: una solenne celebrazione betsileo

Prologo - I preparativi:
I preparativi erano cominciati già prima del mio arrivo, a metà luglio. La sala da pranzo di Monsieur Emma era ingombra di pesanti sacchi di riso, di cui giorno per giorno si stendeva una parte a seccare al sole, nella piazza del paese, su delle stuoie di rafia. Le donne lo decorticavano in grossi mortai. Intanto, gli uomini ridipingevano le case dei membri del clan, di giallo e di rosa. Addirittura, e in un tempo record, nel cortile della casa di Monsieur Emma faceva la sua apparizione un nuovo cubicolo doccia. “Sei fortunata! A fine mese ci sarà una grande festa. Il Kridy di Dada-be, mio padre” – mi dice Emma. Così comincio a guardarmi in giro, cercando di capire cosa sia, questo Kridy, o Lanonana se si preferisce il termine ufficiale, di cui parlano tutti.

La famiglia di Emmanuel (detto Emma) Ratsimbazafy, come già ho avuto modo di accennare, è molto influente qui ad Ambohimahamasina. Il sindaco è suo cognato, lui è impiegato al comune, e il padre, Dada-Be appunto, è un ray-amandreny, letteralmente “padre e madre” della comunità, un appellativo con cui ci si riferisce ai membri più anziani di ciascun clan. Dada-Be è stato sindaco a sua volta, e per molti anni. Adesso, di anni ne ha 80, un volto spigoloso, lo sguardo cupo e sempre assorto, la camminata lenta e la mente ancora lucida. Gira per il paese avvolto nella sua coperta a righe blu e bianche, che lo ripara dal freddo e gli dà l’aspetto di un piccolo re vagante alla ricerca di un trono rubato dagli anni. Ad aprile si è gravemente malato e l’hanno dovuto ricoverare per varie settimane. Ciononostante, la sua dura tempra ha beffato l’attacco del male, cosicché, per ringraziare il buon Dio e festeggiare la ritrovata salute, la sua famiglia ha deciso di organizzare una celebrazione a cui è invitata non solo tutta la comunità, ma anche la numerosa famiglia disseminata ai quattro cantoni dell’isola. Si prevedono un paio di migliaia di invitati, una cifra enorme, se si considera che Ambohimahamasina centro, da solo, non ne ospita che qualche centinaio. La celebrazione, il Kridy appunto, durerà 3 giorni e sembra proporre una interessante mescolanza tra usanze tradizionali betsileo e credenze cristiane.

Per l’occasione non si è badato a spese: sono state comprate 6.000 kapoka di riso (la kapoka è l’unità di misura locale, corrispondente ad una latta di latte condensato Nestlé (?). Un kilo equivale a 3 kapoka e mezzo. Facendo rapidamente i calcoli, dovrebbero essere circa 1700 kili!!) e si sacrificheranno due zebù, del valore di 2.500.000 di ariary ciascuno, ovvero poco meno di 2000 euro di bestie. A ciò si aggiungano un numero indefinito di polli, la benzina per far funzionare i gruppi elettrogeni che illumineranno la festa, la comunità mobilitata per offrire alloggio, etc. etc. etc. etc. Detto questo, riflettere sulla povertà del Madagascar, e di questa regione in particolare, sembra una battuta di cattivo gusto!

1 agosto, 6:30 del mattino – Il sacrificio del primo zebù: cibo per gli invitati

Un corteo di uomini che trascina faticosamente sul sentiero un nero e pasciuto zebù è il segno che le celebrazioni sono cominciate. La bestia è accompagnata da grasse risate, non so se di scherno o di divertimento.
Va detto che i malgasci fanno un uso molto speciale della risata. Normalmente, più che per divertimento, ridono per schermirsi, più di rado per schernire. Ciononostante, quando mi ritrovo ad essere io l’oggetto delle risate, cosa che capita abbastanza spesso e per le più incomprensibili ragioni, è l’irritazione a vincere su una più desiderabile autoironia.
Ad ogni modo…lo zebù viene portato sotto un albero accanto alla chiesa protestante, dove lo si sgozza. Il suo sangue si raccoglie in dei secchi. Poi lo si scuoia e, con gesti sapienti e impudichi, si mette a nudo il meccanismo molle e lattiginoso di quel fu organismo vivente, che viene ridotto così, in rigorosa sequenza, ai minimi termini di ciascuno dei suoi componenti. Da bestia a carne. Separate le trippe e le zampe, che vengono appoggiate su un letto di foglie, la brigata dei macellai, tutti uomini, trasloca in una casa diroccata a poca distanza per continuare la preparazione degli intingoli. Le operazioni si svolgono nella più assoluta mancanza di igiene, sulla nuda terra, senza teli protettivi, né guanti, né acqua, tra uomini che sputazzano tabacco da masticare, che vanno e vengono intorno ai tranci di sanguinolenti sparpagliati a destra e manca in mezzo agli intestini colanti le feci della bestia abbattuta.

Ore 11:00 - Tsodrano e Sokela, Offerte e discorsi
Mentre il primo zebù scompare a colpi di accetta, un poco più a nord i congiunti più stretti di Dada-Be montano, nella piazza principale del paese, un banchetto per il ricevimento degli invitati, che arrivano per gruppi familiari, ciascuno recante abbondanza di doni: un’offerta in danaro e sacchi di riso. La presentazione del dono prende il nome di Tsodrano, ossia benedizione: consiste in un discorso cantilenante e ben orchestrato, fatto sempre da uomini, che rivela la straordinaria eloquenza dei betsileo nell’arte del kabary (discorso ufficiale) nonché la loro irrefrenabile logorrea, ben combinata a una verace passione per il microfono e una scarsa dimestichezza con l’equalizzatore.
Il portavoce di ciascun gruppo dice da dove arrivano, di chi sono figli, perché sono venuti e che cosa hanno portato, in cifre e volumi. Tocca poi agli anfitrioni, che raccontano – vista la durata di ciascun intervento, oserei dire, PER FILO E PER SEGNO - la lunga vita di Dada-Be, la sua malattia, la dispendiosa organizzazione della festa e la quantità di cibo disponibile, in cifre e volumi. Ogni scambio dura almeno trenta minuti. Una volta terminato, gli invitati vengono condotti alla Trano-Maintso, un’area attrezzata a mensa dove vengono nutriti a ritmi da refettorio, intanto che il gruppo successivo è già pronto ai blocchi di partenza. I discorsi si succedono per tutta la giornata, sempre diversi ma sicuramente anche sempre uguali, interrotti in un paio di occasioni da balletti, in cui le donne, con dei cesti sul capo idealmente contenenti il riso, mimano lo scambio di doni.
In tutto questo frangente, Dada-Be, che uno immaginerebbe seduto in gloria al centro della festa, non è invece nemmeno presente. Come mi viene spiegato, in questo particolare tipo di celebrazione la famiglia del festeggiato si limita ad organizzare e accogliere gli invitati, senza fare nessun altro tipo di intervento diretto, né discorsi ufficiali né convenevoli di altro tipo.
Nello stordimento e nella monotonia dei discorsi, mi rimane appiccicata in testa una sola espressione: “Indrindra indrindra k’fa!”. Diventa l’ossessione della giornata: “Indrindra indrindra k’fa!”, vado ripetendo a pié sospinto. Al punto che, quando tocca pure a noi, ben assortito gruppettino di stranieri alla comunità, un po’ malgasci ma anche no, fare il nostro Tsodrano, non perdiamo l’occasione di condirci per benino il nostro kabary, seminando grasse risate (questa volta di divertimento), tra il pubblico ormai spossato da cotanta arte retorica.

Una società fortemente gerarchica

Lo svolgersi del Kridy è stato un’ottima occasione per scorgere la strutturazione fortemente gerarchica della società betsileo, una divisione che riguarda non solo caste diverse (è per inerzia accademica che uso il termine casta, ma non sono certa che sia il termine più adeguato), e quindi una relazione verticale, ma implica altresì differenze interne ad una medesima casta, in una relazione orizzontale che separa i diversi ranghi di autorevolezza.
Questa struttura è emersa già, ad un primo livello, nella separazione delle mense: gli invitati arrivati dalla campagna venivano nutriti in uno spazio all’aperto, su rozzi banchi di legno. Il loro pasto consisteva in enormi porzioni di riso e la carne dello zebù ucciso al mattino. Ho fatto un giro tra i tavoli: l’odore meno nauseabondo era quello della legna che ardeva. Il riso, già cotto, era stato di nuovo rimesso nei grossi sacchi di plastica bianca in cui era stato acquistato e da cui veniva scodellato nelle gamelle. La trippa, dall’odore stantio di viscere, era distribuita da secchi di plastica. Il resto della carne, dura e legnosa perché priva di macellazione, era mescolata al grasso e al sangue e cotta in grossi pentoloni di ferro. Terminato il pasto, gli invitati venivano fatti accomodare all’uscita, incasellati come greggi. Questo refettorio, detto Trano Maintso, era ubicato all’estremità inferiore del paese. I commensali, in vari turni, sono stati stimati intorno ai 1200.
In cambio, agli invitati di riguardo, ai membri più stretti della famiglia e ai notabili del paese, il trattamento offerto era di tutt’altro tipo: sulla sommità del paesino, proprio accanto alla piazza, era stata montata una vera sala da pranzo, nelle aule della scuola comunale. Le grosse tavole erano ricoperte da tovaglie e apparecchiate con cura. Da bere c’erano bibite gassate e whisky. Ogni quattro invitati c’era un portavivande ricolmo di riso - da cui ciascuno si serviva da solo-, un piatto con pezzi scelti di pollo in salsa, un brodo di verdure e un’insalata di carote. In questa seconda mensa, si sono avvicendati, in vari turni, circa 500 invitati, ma anche qui c’è stata una segmentazione, questa volta di tipo orizzontale. In una prima sala, da una sessantina di posti, sono stati serviti Dada-Be, i suoi parenti venuti dalla città e le autorità del paese, tra cui i tre vazaha, ossia io, Samantha, una ragazza inglese che ha vissuto vari anni qui e Romain, un volontario francese di una ONG locale. All’aperto, prendevano invece posto gli altri invitati, anche questi secondo un principio di turnazione. I colleghi malgasci di Romain, per esempio, non hanno mangiato insieme a noi, come sarebbe stato logico visto che avevamo fatto lo Tsodrano tutti insieme, ma nella sala accanto. E da qui, è facile immaginare anche che il pollo a loro destinato non fosse solo petto e cosce. Le donne della famiglia, ivi compresa la moglie di Dada-Be, servivano a tavola e hanno mangiato per ultime. Il pasto è stato consumato in poco più di mezzora e, fatta eccezione della preghiera iniziale, in quasi assoluto silenzio.
Dopo la cena, ha avuto inizio la festa: una discoteca all’aperto che è proseguita per tutta la notte, per tutta la notte, per tutta la notte, ai ritmi ipnotici delle musiche malgasy, sempre le stesse, sempre le stesse, sempre le stesse, tra fiumi di toaka, il velenoso rum locale, che scorreva a fiumi, ma proprio a fiumi!!

2 agosto: Il sacrificio del secondo zebù: una comunione familiare attraverso la carne.
A mezza mattinata del sabato, una nuova processione di uomini trascina un grosso zebù, sicuramente più grosso di quello del giorno precedente, lungo il sentiero principale del paese. Questa volta, però, è davanti alla casa di Dada-Be che si fermano. L’enorme bestia cornuta, nonostante i lacci alle zampe, cerca disperatamente di divincolarsi. Serve a poco: tempo qualche secondo e il sangue già sgorga a fiotti, formando prima una grossa macchia rossa sul sentiero e poi due grossi secchi di liquido schiumoso. Lo scuoiamento si ripete come da copione, ma questa volta la carne non servirà a sfamare gli invitati venuti da lontano, ma sarà distribuita, secondo un meticoloso rituale, tra tutti i membri della famiglia, un piccolo pezzo a testa. “Lo zebù è diventato carne, e quei pezzi di carne non sono solo cibo. Rappresentano qualcosa” – mi dice Monsieur Silvestre, oggi straordinariamente loquace. E difatti, la distribuzione riflette nuovamente la gerarchia delle caste e la posizione di ciascun gruppo all’interno del clan. Ai parenti di primo grado viene dato il vody hena, la parte posteriore della bestia, più pregiata e carnosa; alle famiglie dei generi, il cuore e i polmoni; gli intestini al lignaggio discendente dalle donne del clan…e così via…Il fegato rappresenta il patriarca stesso, Dada-Be, e tutti i suoi congiungi più stretti, insieme al loro pezzettino di carne, ricevono anche una striscia di quello. Il sezionamento della carne va avanti per ore, fino a pomeriggio inoltrato. I convenuti attendono, non senza qualche piccola protesta, che gli venga assegnata la porzione che gli spetta. “Avrei voluto starmene a casa, ma non potevo, perché bisogna onorare questo zebù, che rappresenta la nostra famiglia in tutta la sua struttura”.
Nofo Kena Mitampiavana: è la carne che ci rende parenti di sangue. Questo il nome del rituale. A festa finita, ognuno va a casa col suo pezzo, portandosi il sapore di questo momento di alleanza familiare, o la delusione per esserne stato, per motivi sempre alquanto indecifrabili, escluso.

Post scriptum: Anche al mio gruppettino è toccato un pezzo di Nofo Kena. Dopo la carneficina del giorno, non mi sono proprio curata di sapere chi ne avesse raccolto l’onore. Ma l’atmosfera di questa festa ha significato per me un piccolo passo verso l’integrazione nella comunità di Ambohimahamasina. Il giorno dopo infatti, Monsieur Emma mi ha invitato a mangiare lo stufato di zebù alla tavola del patriarca. Non un semplice invito in famiglia, peraltro il primo che ricevo, ma una grande prova di stima di cui spero di essere all’altezza. E detto fra noi, non era nemmeno così male, il povero zebù.