domenica 26 luglio 2009

Fotoana betsileo: Tsa misy vaovao

21 luglio: Sono trascorsi 8 giorni da quando sono arrivata a Ambohimahamasina.
Cosa sono 8 giorni in confronto all’eternità? Le giornate sono trascorse lunghe e monotone, ravvivate da piccoli eventi di grande importanza: il mercato, una lezione di inglese che ho fatto venerdì, l’arrivo di due straniere, purtroppo andate via troppo in fretta, lo zoma mafinatra ovvero la febbre del venerdì sera, la vendita di un maiale, la messa domenicale.
Ho tutto il tempo di rielaborare ogni gesto, ogni parola, ogni incontro.

Ogni giorno mi sveglio verso le 7:00. Faccio colazione: caffè e biscotti o più di frequente mofo gasy, delle brioscine di farina di riso. La mattinata mi si prepara davanti come un lungo sentiero che non conduce da nessuna parte. Vado a fare una passeggiata? Leggo un po’? Vado a cercarmi qualche membro del FIZAM?
Ogni giorno cerco di fare dei programmi, che puntualmente naufragano nel niente. Manao programme? Inona ny programme? Mi chiedono tutti. Io ci provo, a organizzarmi un po’, ma tutto è rimandato a un indeterminato dopo che non arriva mai e l’agenda è piena di cancellature. Ci vediamo dopo, mi dicono, siano le tre del pomeriggio o qualche altro momento non ben definito, purché non immediatamente. Tutti sembrano estremamente occupati nelle loro faccende: le donne in casa, gli uomini nelle risaie, i bambini in strada a giocare.
Mi ritrovo a fare avanti e indietro tra la casa dove sono alloggiata e la piazzetta del paese. In questa tranquilla monotonia, parlo con tanta gente. Con i bimbetti, che giocano a far parlare le pietre; con le loro mamme che lavano i panni alla fontana o si intrecciano e pettinano i capelli. C’è chi mi chiede della mia famiglia, chi vuole lezioni di inglese, chi mi chiede qualche espressione in italiano, chi mi vuole vendere delle noccioline. Fumo una due e tre sigarette godendomi il tepore del sole, mangio delle barrette di cioccolata che mi sono portata dalla città e che, purtroppo, cominciano a scarseggiare. Guardo la valle. Intanto si è fatta ora di pranzo, ma il bilancio del lavoro svolto è piuttosto scarso. Ho parlato con tutti, eccetto con chi potrebbe darmi una mano a vederci più chiaro in questa ricerca. Loro, i miei informanti chiave, mi evitano educatamente, per caso o di proposito, questo ancora non l’ho capito.

Di turisti, nemmeno l’ombra. Il fenomeno è purtroppo così inconsistente da rendere le mie domande ridicole. Sono io l’unica turista in questo villaggio!! Troppo poco per sconvolgerne i ritmi! Eppure, io sono convinta che sotto tutta questa cenere, un po’ di brace ancora c’è!

Le ore si snocciolano una ad una come i grani di un rosario. Aspetto l’ora di luce per ricaricare il computer. Aspetto l’ora di pranzo e l’ora di cena. Aspetto che arrivi il tramonto per cercare di intercettare qualcuno che, a fine giornata, abbia voglia di raccontarmi qualcosa.

È ovvio, anche le conversazioni che non portano da nessuna parte hanno la loro magia. Imparo tante cose, sulla vita di questo paesino addormentato tra le risaie. Ma la pazienza stuzzica la frustrazione, la tranquillità si fa attesa e l’attesa insinua il dubbio. Che cosa ci faccio qui?

Dentro di me lottano due sentimenti opposti e discordanti. Dal punto di vista umano, sono felice di stare qui, di conoscere questa gente e di farmi conoscere da loro. Ogni momento sembra ridurre le apparentemente enormi distanze culturali che ci separano. È uno scambio continuo, pieno di sorprese. Dal punto di vista accademico, invece, poco di nuovo sotto il sole. La ricerca procede affannosamente. Le persone sono distanti, diffidenti, in particolar modo gli anziani: più cerco di parlare loro, più si allontanano. Forse mi stanno mettendo alla prova, forse mi stanno insegnando ad essere come loro, sempre indiretta, sempre allusiva. Provo ad imparare a porre le domande girando intorno alle cose.

L’altro giorno parlandocon Haja, una delle guide del FIZAM, ho scoperto che uno degli iniziatori del turismo ad Ambohimahamasina, qualche anno prima della creazione della FIZAM, è un certo Monsieur Silvestre. Guarda caso, Monsieur Silvestre abita proprio di fronte. Così lunedì vado da lui, di buon mattino. Gli spiego chi sono e cosa faccio ad Ambohimahasina. “Merci d’avance” – mi dice – “Senza qualcuno che ci dà dei riscontri, quello che facciamo non avrebbe senso”. Parole gentili, che mi lasciano sperare. Tuttavia, mi dice, immediatamente non gli è possibile intrattenersi con me. Domani, cioè oggi, deve andare a Fianar per delle commissioni, per cui potremo parlare al suo ritorno. Lo ringrazio per la disponibilità e torno a casa, carica di attesa.

Oggi lo incontro in giro per il paesello. Non è partito ancora, mi dice, forse partirà domani. Gli rinnovo cortesemente l’invito a fare due chiacchiere. “Al mio ritorno”, mi dice, anche se poi questo ritorno è tanto imprecisato quanto la partenza. Nel pomeriggio, lo vedo seduto al sole, da solo, nella piazza del paese. Decido di mostrargli che so avere pazienza. Vado a sedermi vicino a lui con il mio libro. Per due ore rimaniamo in silenzio. Lui non mi rivolge mai la parola, io continuo a leggere il mio libro.

Così, è passato oggi, e forse passerà anche domani, e magari chissà…tutta la settimana. Qualcuno mi aveva avvertito: “Vedrai! Questa gente non parla!”. Adesso comincio a capire.
Imparo ad avere pazienza, ed un sorriso idiota sulla faccia.

Pulci

Immancabile, nelle mie notti malagasy, e a volte anche nei giorni, la loro invisibile e snervante presenza. Passeggiano sul mio corpo lasciando piccole punture rosse e fastidiose. Quante sono? Una, dieci, un battaglione? Le cerco con la torcia, fumo una sigaretta per decidere una strategia, ritorno a letto e appena prendo calore, la loro danza ricomincia. Forse non ho chiesto loro permesso? Azafady, madame le parasy! Non so come liberarmene! Magari do fuoco alla stanza?
Se almeno sapessero scrivere, almeno potrei dettargli qualche impressione…

p.s Se avete ricette casalinghe antipulci, please help!!

Miantso Koka

È successo la notte del mio arrivo a Ambohimahamasina e meno male che qualche giorno prima me ne aveva parlato un amico o sarei morta di paura!
Nei villaggi di campagna, non essendoci polizia né gendarmi, la sicurezza è organizzata su base locale, in ronde autogestite che, all’occorrenza, vengono chiamate a difendere le proprietà dei contadini. La minaccia più diffusa è l’attacco dei banditi, normalmente ladri di bestiame. Quando qualcuno li avvista, lancia la koka, un avviso di allarme che serve a chiamare al raduno. Tutti gli uomini del villaggio sono obbligati a rispondere, pena una multa imposta dal comune.
Quella sera, la tranquillità della notte viene rotta dalle grida della koka. Monsieur Ema, il mio ospite, lascia la tavola e si veste in tutta fretta. Passa qualche minuto e le campane si mettono a suonare freneticamente. Dalle case addormentate nel buio escono gruppi di persone. Si teme un furto di bestiame!
Il mattino seguente mi spiegano che si è trattato piuttosto di una lite tra vicini e c’è pure scappato il morto! Il lunedì, giorno di mercato, si sa, si alza sempre un po’ gomito, e queste cose possono capitare! La sfortunata vittima aveva fatto delle avances non proprio gradite alla moglie del vicino geloso, che non ha trovato niente di meglio da fare che assestargli un colpo non proprio calibrato di accetta. Fine della storia. Il malcapitato è finito all’ospedale ed è deceduto poche ore dopo. In questi casi, il comune prevede l’applicazione del DINA, una forma di diritto tradizionale che alla gattabuia di stato aggiunge un risarcimento di circa 3000 € per la famiglia della vittima. Se l’aggressore non può onorare direttamente il debito, sarà la sua intera famiglia, che qui è piuttosto allargata, a doversene occupare. Nel nostro caso, sarebbe interessante capire come si risolverà la vicenda: pare infatti che l’aggressore sia niente di meno che il fratello del sindaco, un uomo piuttosto potente, in questa piccola comunità.

Eto, Ambohimahamasina: io sono qui.

16 luglio: Ambohimahamasina è il villaggio in cui condurrò parte della mia ricerca. Forse è un po’ prematuro utilizzare l’indicativo. Forse dovrei dire vorrei. Sono arrivata da quattro giorni e comincio appena a guardarmi intorno. Non so da dove cominciare, lo confesso…ma qualche idea mi verrà.
Ambohimahamasina è un villaggio di campagna a est della cittadina di Ambalavao, da cui dista 42 chilometri, ossia un’ora e mezza di taxy brousse. Conta circa 20.000 abitanti, che sembrerebbero tantissimi se non fossero suddivisi in ben 15 piccoli agglomerati, sparpagliati su una superficie di svariati chilometri. Nel villaggio c’è l’unico ospedale della zona, con un solo medico e due infermieri che si prendono cura di tutti; due scuole elementari, una statale e una privata cattolica, un liceo e due o tre chiese di confessioni diverse, che in Madagascar, quando tutto manca, un pastore di anime lo trovi sempre.

I giorni più animati della settimana sono il lunedì e il giovedì, quando c’è il mercato. In realtà succede che gli uomini si ubriacano più degli altri giorni, visto che la merce più venduta è il nefasto toaka gasy, un rum locale, etilico e a buon mercato, ufficialmente illegale. Per il resto, come amano dire i locali, è tutto molto, molto tranquillo.
La giornata comincia presto, alle cinque e mezza del mattino e finisce altrettanto presto, poco dopo il calar del sole, ossia verso le sei. Nelle case, e non in tutte, l’elettricità c’è solo un’ora al giorno, regolata da un generatore a gasolio comunale a cui bisogna essere abbonati. Ogni lampadina costa 3000 Ariary al mese (circa un euro). Nell’ora di luce, i bambini si riuniscono nelle poche case che hanno un lettore DVD e guardano qualche video musicale o qualche improbabile film d’azione. I film sono sempre in francese, ma caso strano, qui lo parlano veramente in pochi. Il miracolo delle immagini in movimento funziona sempre! Ad Ambohimamasina la televisione di stato non prende e non arrivano nemmeno i giornali. Non c’è rete telefonica, tranne che su una collina a circa mezzora di cammino, e il posto internet più vicino è a Fianar, a 60 km. La mia voce arriverà come un’eco, con giorni, forse settimane di ritardo.

Ad Ambohimamasina sono arrivata sulle orme del FIZAM; un’iniziativa di turismo solidale completamente gestita da malgasci della quale vorrei studiare organizzazione e obiettivi. Ma per il momento di turisti, a parte la sottoscritta, non se ne vede nessuno. Il posto senza dubbio merita: una valle maculata di risaie, circondata da montagne sacre e orlata da un corridoio di foresta vergine che separa gli altipiani, paese dei Betsileo, dalle terre dei Tanala, l’etnia di raccoglitori della foresta. La notte, al buio, il cielo ti sovrasta come se volesse inghiottirsi. C’è un numero di stelle da fantascienza. Sembra quasi di poterle toccare, tanto sono splendenti e vicine.

Per essere più addentro all’oggetto dei miei studi, ho scelto di alloggiare con una famiglia. In realtà non so quanto si tratti di una sistemazione definitiva e per due ragioni: la prima, è che mi riesce difficile spiegargli che ho davvero voglia di restare qui per qualche tempo, per cui credo che negozierò un tetto di quindici giorni in quindici giorni. Ho come la sensazione che i ricercatori gli facciano un po’ paura, per cui mi sto spacciando per una turista che ha voglia di imparare il malgascio ma, onestamente, non so quanto questa storia reggerà. La seconda ragione è che non vorrei essere causa di potenziali gelosie tra le famiglie, quelli che mi ospitano e quelli che non possono farlo. Per cui, finché mi è possibile, cercherò di fare a turno, così nessuno si offende e quel po’ di soldini che inevitabilmente porterò in paese si distribuiscono un po’ tra le varie famiglie.

Per il momento quindi sono a casa di Monsieur Ema e Madame Flore, albergatori della FIZAM, associazione per lo sviluppo eco - turistico di Ambohimahamasina. Monsieur Ema è un agricoltore e un impiegato del comune. Accidentalmente, è anche il cognato del sindaco, che è poi il marito della presidentessa dell’associazione. Il mio alloggio è una stanzetta al piano terra della loro casa tradizionale, detta varangue per le sue belle balconate di legno intarsiato. Le condizioni sono spartane ma tutto sommato confortevoli: il vano doccia e il bagno sono all’esterno. Naturalmente l’acqua corrente c’è solo alle fontane comunali, per cui ci si lava con i secchi e l’acqua calda si scalda sulla brace a carboni e solo su richiesta. L’unica nota dolente di questa sistemazione è che accanto a me ci sono 3 giovani apprendisti pastori evangelici, che passano le albe e le notti mormorando ferventi litanie che probabilmente simulano battaglie con diavoli immaginati e reali tentazioni. Fatto è, che alla luce flebile della candela e nel silenzio interrotto solo dal latrato di qualche cane, i loro mugugni e gemiti conferiscono all’atmosfera un non so che di tetro, che non concilia esattamente il sonno.

Erica

A Fianarantsoa (Fianar per gli amici), faccio un paio di giorni di pausa prima di raggiungere la provincia di Ambalavao. Lontana dai corridoi polverosi del Ministero, dai formulari da riempire e dalle domande senza risposta, approfitto di un momento di serenità per recuperare il senso di questo viaggio. Sono ospite di Gabriele, un ragazzo palermitano che vive qui da un paio d’anni. Lui è via, per cui mi trovo sola con Erica, la sua compagna malgascia. Detto tra parentesi, Erika in malgascio è anche il nome di una pioggerella sottile che cade in inverno sugli altipiani.
Erica ha appena cominciato a studiare l’italiano e parla poco il francese. Nemmeno io ho tanta voglia di parlarlo, per cui siamo un assortimento perfetto. Passiamo ore di una semplicità così piena di piccoli eventi che è difficile da descrivere. Andiamo al mercato a fare la spesa. Prepariamo insieme il ravitoto, un piatto locale a base di foglie di manioca e carne, generalmente maiale, ma che noi decliniamo sul pollo. Erica ci aggiunge un tocco esotico, polpa di cocco grattugiata. Tena tsara! E tra un pasto e un’infusione, un esercizio di grammatica e persino un film di Muccino, ci scambiamo un po’ delle nostre vite, in ore di conversazione che va dalla religione ai matrimoni, in una lingua che non so qual è, però ad ogni parola che pronuncio, ad ogni faticosa comprensione, si accompagna un senso di euforia, come quando togli le rotelle alla bicicletta e ti accorgi che riesci a stare in equilibrio o quando al mare ti accorgi che sai stare a galla.
In Madagascar mi sento tornare bambina: devo riscoprire ogni gesto, trovare i nomi alle cose, imparare com’è che si fa. Non sono solo le parole a mancarmi… mi manca tutto il resto, tutto l’universo di senso dentro il quale i suoni cominciano ad avere un significato. E come un bambino, quando vedo negli occhi di chi mi ascolta quel sorriso di condivisione, quell’assenso che significa: “Si, è così! Ho capito quello che vuoi dire!”, mi si riempie il cuore di una felicità pura e inspiegabile Fatico in questo mare di sillabe per me sconosciute, questi echi di parole che sembrano tutte uguali e cominciano tutte per M. Annaspo, balbetto…poi, all’improvviso, non so come, comincio a stare a galla. Erica mi guarda, ha capito e mi risponde. Mi aggrappo a un verbo, a un aggettivo, per cominciare a decifrare. Galleggio…posso provare ad andare più lontano.
Quando lascio Fianarantosa ho tanto calore nel cuore. Misaotra indrindra, Erica! Mi hai dato ancora più voglia di non smettere di cercare…

Taxy Brousse

In Madagascar il vazaha (straniero bianco) si può muovere in due modi: o fitta un 4x4 o prende il taxy brousse. In verità, ci sono anche i voli interni e due linee ferroviarie in funzione, ma i primi sono troppo cari e le seconde, quando portano dove vuoi andare, sono una scommessa, per cui si finisce per adattarsi alle circostanze. Le vetture private sono piuttosto scarse, per cui l’autostop non è da prendere in considerazione.

Per spostarsi in taxy brousse è sempre meglio prenotare un po’ in anticipo, ci consigliano le guide di viaggio, così si possono scegliere i posti migliori. Io, che decido sempre all’ultimo momento, non riesco mai a farlo. Questa volta però sono riuscita a procurarmi il numero di telefono di una compagnia di trasporto, Sonatra, per cui li ho chiamati il giorno stesso della partenza e sono riuscita ad assicurarmi il mitico posto n°3!!

Morfologia del taxy brousse: un furgoncino tipo mini-van, con 12 posti a sedere, 3 su ogni fila. In realtà, ci si sta almeno in 15, dato che si vendono anche i posti accanto al guidatore, più o meno ambiti a seconda di quanto si voglia stare comodi (sono un po’ più spaziosi) e che non si temano le curve (la visuale è sconsigliata ai cardiopatici). Sui tragitti regionali, generalmente più brevi, di persone ce ne stanno fino a 20, stretti stretti come sardine pur di non lasciare a piedi nessuno.. I posti sono numerati e i più gettonati sono quelli nella fila immediatamente dietro al conducente: il 3, il 4 e il 5. Il 3 è quello proprio dietro al posto di guida: il più sicuro in caso di incidente, o almeno così dicono, non so se per sollevarmi o per farmi sentire una privilegiata. Il 5 ha l’inconveniente di essere accanto al portellone, pessima posizione a causa degli spifferi. Nel 4 non hai niente a cui appoggiarti, a parte il vicino, se ti senti in vena di confidenza e una cauta promiscuità.

Per richiedere una pausa tecnica si usa dire: “Olombelona tsy akoho” (gli uomini non sono polli): è così che i malgasci comunicano che devono far pipì. In quelle circostanze si scopre un uso inedito del pareo, lamba in malgascio, che le donne, anche quelle giovani, che vestono all’occidentale, portano sempre legato in vita. Appena l’auto sosta, quasi sempre in mezzo al niente, il lamba si trasforma in un pratico paravento per coprirsi da sguardi indiscreti mentre ci si accovaccia per liberarsi.

Quando si viaggia in taxy brousse è sempre bene fare scorta di viveri e bibite, in caso la vettura rimanesse in panne (cosa che accade la metà delle volte) in mezzo al suddetto niente. Per me, il viaggio ha l’odore inconfondibile della Bonbon Anglais, una bibita gasata spacciata per limonata, 100% malgascia, prodotta però con la benedizione dell’onnipresente Coca Cola company, che anche qui monopolizza il mercato delle bibite in bottiglia. Dolce come una giuggiola sciolta, la Bonbon Anglais funziona meglio di un deodorante per auto. Basta stapparla e tutti sapranno immediatamente che la stai bevendo. Sconsigliata se si viaggia in incognito. I malgasci la adorano, soprattutto mescolata a un po’ di toaka, il terribile rum locale.

I bagagli vengono caricati in cima alla furgonetta, meticolosamente ricoperti da un grosso telo di plastica e assicurati da vari giri di corda. C’è di tutto: scatole, ceste di pollame, gamberetti, gusci di tartarughe, mobilio, una volta mi è capitato persino il motore di un auto. Riuscite a sentire gli ondeggiamenti del furgone stracarico ad ogni curva? E l’odore di bruciato dei freni? Ah, benedetti autisti!!

9 luglio: Finalmente posso lasciare Antananarivo. Mi aspettano almeno 9 ore di viaggio per percorrere i circa 400 e rotti kilometri che mi separano da Fianarantsoa. Non so se per coraggio o per codardia, ma decido di viaggiare di notte.
L’appuntamento per la partenza è alle 17. In realtà so già che il mezzo non parte finchè non è pieno, per cui arrivo alla stazione armata di pazienza. Ecco, un viaggio in taxy brousse è un buon modo per imparare il valore del tempo all’africana, come diceva anche Kapucinsky. Ti insegnano ad aspettare senza innervosirti, ti fanno perdere l’abitudine di fare domande insolenti e che ti identificherebbero subito per quello che sei, un bianco figlio di una società in cui il tempo è denaro. Un minuto, un’ora, domande come: “Quando parte?” per i malgasci non sembrano importare. Si accomodano in vettura e aspettano senza batter ciglio. Innervosirsi non è roba da malgasci.
Alle 18:30 comincia il rituale di impacchettamento dei bagagli sul tetto, segno inequivocabile che la partenza si fa imminente. Però… Il y a un problème!! Un passeggero, che ha pure pagato il biglietto anticipato, ha deciso di prendersela comoda. Mentre aspettiamo mi rendo conto che nemmeno quella famosa frase: “Sbrigati, che l’autobus mica aspetta!”, tanto usata dalle mamme per schiodarti dal letto nei giorni di scuola, qui è poi tanto vera. Il signor passeggero arriva dopo un’ora buona. Alefaaaaa, si parte!!
Sono un po’ inquieta per il viaggio. Per distrarmi mi metto a chiacchierare con un altro passeggero, uno studente di diritto. Si sente di rassicurarmi. Lui, di incidenti in taxy-brousse ne ha già fatti un paio. Da allora, prende sempre il posto accanto al guidatore, così tiene un occhio sulla strada. Però – mi dice - ultimamente c’è da stare tranquilli: con l’aumento della benzina (che costa uguale che in Europa, un euro al litro, che qui è un’enormità) si riduce la velocità, per cui il conducente ci penserà due volte prima di spingere a tavoletta. Vorrei credergli, ma la sua profezia è vera solo a metà: quando il conducente si stanca di ascoltare e riascoltare a tutto volume il suo unico CD, si fa una canna e comincia a pigiare sull’acceleratore. Alle cinque e mezza del mattino, praticamente in piena notte, arriviamo a Fianarantsoa.
Che non fosse questo l’inconveniente dei taxy brousse? Partono sempre tardi e, quando arrivano, è ancora troppo presto!

sabato 11 luglio 2009

L'Ile Rouge

Il bar “L’Ile Rouge” si trova ad Ambondrona, una delle strade del centro di Antananarivo, a poca distanza dai 160 gradini di Analakely. Il quartiere, in tempi migliori, abbondava di turisti di passaggio. Quest’anno è un po’ più deserto, a causa delle varie crisi: quella economica, che colpisce alle origini del mercato turistico, e quella politica, che tra gennaio a marzo ha scosso le fragili basi della giovane democrazia malgascia.
Ciononostante, la sera questo bar, che da meno di un mese ha cambiato gestione, è sempre abbastanza affollato: un’umanità varia e poliglotta, composta per la maggior parte di espatriati europei, anzi francesi, qualche ospite dell’hotel Moonlight, che si trova giusto di fronte, e un numero variabile di ragazze malgascie. Alcuni volti mi erano già noti dal viaggio scorso: una clientela così assidua da sembrare quasi parte dell’arredamento. L’assortimento non è casuale. Tra una chiacchiera, varie birre THB e pure qualche rum arrangé, si fa presto a fare amicizia e a voler –chissà- condividere qualcosa in più che semplici sorrisi.
Il problema della “prostituzione” o del “turismo sessuale” è abbastanza evidente in Madagascar, soprattutto nelle grandi città e nei centri turistici costieri. Ciononostante, è sbrigativo e complesso assegnargli un’etichetta, anche solo per farlo rientrare nei ranghi. “L’Ile Rouge”, per esempio, non è nemmeno lontanamente un bar ambiguo, perlomeno in apparenza. Ma chi si fida delle apparenze? Se dovessi pensare ad un’immagine, direi che “L’Ile Rouge” è come uno stagno: puoi serenamente passeggiare sui bordi, pescare o bagnarti. In tutti e tre i casi ti farà compagnia l’ipnotico gracidio delle rane, le vere padrone dello stagno.
È così anche qui: le vere padrone del bar sono le ragazze. A cominciare dalle due bariste: sorridenti e simpatiche senza mai un ammiccamento, vigilano che non si arrivi mai al fondo del bicchiere. La conversazione è sempre piacevole, appunto perché il bar non ha niente di losco: ci trovi il restauratore del Palazzo Reale, il medico della Croce Rossa, il commerciante d’artigianato, l’agente ammobiliare, qualche turista di passaggio. Le ragazze, appollaiate sugli sgabelli, hanno sempre qualcosa da dire a tutti. A volte rimorchiano, ma è difficile dire se siano li per quello. Certo è, sono tutte in tiro, con le loro scollature generose, i capelli tirati con la piastra (il must è avere i capelli lisci), i piercing e i tatuaggi bene in vista. Mandano giù un bicchiere dietro l’altro, e poi diventano estremamente rumorose. Il rischio, se non si riesce a farle migrare prima, è che scoppi una rissa. Tra loro, intendo. L’altra sera, stavo chiacchierando tranquillamente con un tipo, vazaha anche lui, quando è esplosa una bagarre. Una delle ragazze si è tolta i tacchi e li ha sbattuti per terra, allargando le braccia in segno di sfida. Un’altra si è messa a urlare. Tutte e due belle messe, biascicavano insulti incomprensibili ed erano lì lì per accapigliarsi, sicuramente per un uomo, come due cani sullo stesso osso. Finalmente è intervenuto il proprietario, che ha gentilmente invitato una delle due, evidentemente la meno assidua, ad accomodarsi fuori.
L’altra mattina invece, mi sono svegliata con un frastuono di urla e colpi proprio fuori dalla porta della mia stanza, in albergo. Mi affaccio e vedo due tipe nel corridoio. Del posto, ovviamente, un po’ meno discrete delle ragazze dell’Ile Rouge, tutte corpetti strizzati e minigonne, trucco pesante, profumo da due lire, accento marcato, anche loro con le scarpe in mano. Rincorrevano, come mi è stato spiegato, un cliente dell’albergo, un tipo inglese, che le aveva rimorchiate e poi si era rifiutato di dare loro il dovuto. Loro reclamavano 80.000 Ar (circa 30€), per l’eccezionalità della prestazione fornita (di cui vi risparmio i particolari, anche se loro ne sono state prodighe, ehehehe). Alla fine, dopo aver minacciato di prendere a sassate il malcapitato, si sono accontentate di 10€. Lo scompiglio è stato grande, tutto l’albergo ha ficcato il naso. Il receptionist è intervenuto a far da paciere, mentre l’inglese negava tutto, rifugiandosi tra le braccia della mamma che era rimasta a dormire ignara in albergo. Poverina, era venuta a trovare quell’angelo di suo figlio che fa il cooperante in Madagascar e se l’è ritrovato puttaniere e ubriacone. I sogni, quelli si, che finiscono all’alba.
Frammenti di storie all’ordine del giorno, in certe parti del Madagascar. È la prova è che le racconti io, che a rigore, non sono proprio dell’ambiente.
Per avere un’idea di come va la cosa, basta fare un giro al Glacier, o all’Indra o al Pandora. Sono semplici discoteche, boites, ma luoghi degni di adescamenti in grande stile. Il rapporto uomini-donne è almeno di 1 a 7. Gli uomini, manco a dirlo, sono tutti vazaha e, indovina indovina, hanno passato quasi sempre da un pezzo l’adolescenza, e pure la maturità. Le donne in cambio sono giovani, a volte molto, troppo, e vengono quasi sempre dalla costa. Riesci a indovinarlo perché hanno la pelle più scura di quelle originarie della capitale, che appartengono ad un’etnia, i Imerina, di origini indonesiane, con la carnagione più chiara, gli occhi leggermente a mandorla e i capelli lisci. Nei bar, di ragazze che fossero di qui non ne ho ancora mai incontrate. Tutte venivano dalle province: Tulear, Diego, Mahajunga, Tamatave. In cerca di fortuna. Che così come arriva, se arriva, sparisce in bigiotteria, tatuaggi, vestiti, telefonini e parrucche. Nelle discoteche, le più esperte sono al centro della pista: ballano ancheggiando pericolosamente, mettono bene in evidenza le curve e l’agilità dei corpi. In seconda fila, ci sono le nuove arrivate: ancora timide, guardano attente com’è che si fa. Le veterane intanto non perdono tempo, perché la concorrenza è spietata: se i maschi fanno i timidi, se li vanno a prendere senza esitazione. “Comment ça va?”. Guai ad offrire loro da bere. Non te le schiodi più di dosso.
La cosa interessante, per quello che ne so, è che qui non esiste sfruttamento della prostituzione: nessun protettore, nessuna rete organizzata. Le ragazze si autogestiscono. Forse per questo hanno imparato a difendersi così bene! Le più carine e giovani sono alla ricerca di un compagno. Se va male, per una sola notte o per un paio di settimane o mesi. Se va bene, hanno un bambino, si sposano, e se proprio non vanno in Europa, almeno hanno di che vivere agiatamente restando a casa propria, aspettando che il loro “cherì” le venga a trovare, una o due volte l’anno. Nel frattempo, con i suoi soldi spesso mantengono un amante, normalmente malgascio.
Alcune, come Lidia, ci tengono a mettere le cose in chiaro: lei non è una prostituta, come le sue amiche. Lei non ama vestire sexy. Lei non fuma. E, a sentirla, non beve neanche. Lei ha un figlio a casa, che l’aspetta. Un divorzio alle spalle. Sta cercando di trovare un lavoro, ma non è tanto facile. E intanto, ha voglia di divertirsi. Ed ogni sera è lì, con il bicchiere mezzo pieno. Qualche volta mi dice che dorme in hotel, perché si fa tardi ed è troppo pericoloso prendere un taxy per rientrare, per cui chiede ospitalità a qualche vazaha. L’altro giorno mi ha fatto vedere il brillantino che si è fatta montare sull’incisivo.
Ecco, le persone come Lidia mi mandano in confusione totale: non riesco a capire dove finisce la finzione e comincia la realtà. Se è semplicemente una ragazza di vent’anni che ha voglia di divertirsi o se c’è dell’altro. Un po’ il dubbio ti viene con tutte…perché magari non è che l’hanno previsto, di prostituirsi, ma non dimentichiamoci che siamo in uno dei paesi più poveri del mondo, e qui ognuno si arrangia come può. In fondo si tratta di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. E allora –direbbero loro - se sei giovane, carina e disinvolta; se non hai niente, ma proprio niente da perdere; se sei cresciuta lontano da quelle religioni bacchettone, che ti insegnano che l’amore è peccato...perché non approfittarne e unire l’utile al dilettevole?

Postilla kafkiana

Non sempre gli incubi finiscono all’alba. L’impiegata del Ministero non era poi così benevolente, né generosa, né competente. In più parlava un francese perfetto, squisito, manieristico. I documenti depennati dalla lista, lunedì scorso, non era un atto di generosità, solo una poco opportuna iniziativa personale. Il mio dossier è stato rifiutato, in barba a quel grande cartello: “Tout dossier incomplet est irrecevable”. E così, martedì mattina, mi accoglie il solito: “Nooooo! Il y a un problème!!!”. Ma questa volta, non è per finta. Mi manca un certificato. Firmato, timbrato, certificato e legalizzato. Lo dice il capo sezione, l’indaffaratissima per cui inavvicinabile e pure molto collerica Madame Safia. La giostra ricomincia. Per altri due giorni.
Giovedì 9 luglio, alle 10 del mattino, ritorno allo sportello. Fa capolino un bel sorriso: “Madame Mancinelli! Voilà le recepisse”. Attenzione: non si tratta del visto. È la ricevuta di deposito della domanda. Ha valore legale, mi assicurano, con questa posso andarmene in giro. Ma scade il 9 agosto. “Le manderemo una notifica per posta”. Io, speranzosa ma incerta, ringrazio profusamente. Per il momento, volto le spalle, sempre con il solito sorriso sulla faccia.
Sono passate due settimane da quando sono arrivata. Il lavoro può finalmente cominciare!

sabato 4 luglio 2009

Questioni di forma: a passeggio nei corridoi della burocrazia malagasy per prolungare il visto di soggiorno.

Lunedì 29 giugno
8:00 in punto: Sono davanti al Ministero dell’Interno, vicino al lago di Anosy, quello che, secondo la Guida del Routard, ha la forma di un cuore. L’impiegato del ricevimento dice che per le pratiche di visto è alla porta 10 che devo andare, nell’edificio accanto. Quello che non dice è che aprono alle nove. Mi siedo e aspetto, paziente e con un sorriso idiota in faccia, risultato del training autogeno che sto già facendo da qualche giorno in preparazione del “percorso del combattente”.
8:30: L’edificio si comincia ad animare di impiegati che arrivano alla spicciolata: signore abbigliate con cura, tacchi alti e una scia di profumo, funzionari inamidati nei loro abiti blu. Approfitto per ricopiare a mano la lunga lista di quasi 20 documenti (+ 7 foto) necessari per ottenere l’autorizzazione. In un silenzio bizzarro, sono già le nove.
9:00: “C’est le lever du drapeau”, mi dicono. Si esce tutti fuori e, impettiti e rispettosi, si aspetta che il tricolore malgascio venga issato sul pennone, accompagnato dalle note dell’inno nazionale e dalle parole di un ignoto funzionario. Celebrata la cerimonia, mi accingo a rimettermi in fila allo sportello. Arriva l’addetto al montaggio computer. Pare che durante la notte, e quindi ogni sera, i computer dell’ufficio informazioni vengano pazientemente spostati e trasportati in un – immagino- luogo più sicuro.
9:30: Fa il suo ingresso un’impiegata, labbra purpuree, pettinatura sbarazzina. Prima di rivolgersi a me, che ovviamente sono la prima della fila, guarda assorta un numero imprecisato ma voluminoso di pratiche. Passaporti francesi, cinesi e comoriani: gli immigrati che bussano alla porta della Grande Ile. Quando finalmente alza lo sguardo, scopro di essere – bien sûr - nella fila sbagliata. Devo uscire dall’edificio, fare il giro e andare sul retro. Eseguo.
Mi accoglie una signora dallo sguardo vacuo e un po’ infastidito. “J’ai des doutes par rapport à la liste de documents, Madame” - le dico. Snocciola qualche monosillabo, mi fa addirittura dubitare che capisca il (mio) francese, ma tra una cosa e l’altra, mi aiuta a decurtare dalla lista di autorizzazioni un paio di voci. Quando tutti i miei dubbi hanno ricevuto risposta, mi apro in un largo sorriso, ringrazio profusamente e mi incammino verso l’uscita.
10:00: Da una rapida valutazione, risulta che la prima tappa del percorso è la prefettura di Polizia di Tzimbazaza. Decido di prendere un taxy, ma forse la mia intenzione non è abbastanza esplicita, visto che il gentile tassista si limita a darmi le direzioni per arrivarci a piedi. Inciampo in una transenna e cado distesa a terra. Mi rialzo e procedo.
Dalle informazioni raccolte da due o tre passanti, realizzo che la meta non è poi così vicina, per cui prendo un taxy-be, un furgone di trasporto collettivo. L’obiettivo di questa prima azione è ottenere il “certificat d’inscription au registre de recensement des étrangers”.
In tempo record, sono alla polizia. Il mio ego si compiace soddisfatto. Troppo presto – évidemment - visto che, per ottenere il certificato, mi mancano: una domanda indirizzata a Monsieur il Prefetto, una fotocopia autenticata del passaporto e del visto, un certificato di residenza con foto autenticata dal Presidente del Fokontany, una foto d’identità e una lettera dell’università! Ricopio a mano la lista, ringrazio profusamente, esco di corsa e riaggiusto il mio obiettivo: devo trovare il presidente del Fokontany, ovvero il “sindaco” del mio quartiere di residenza. Monto su un taxy be in direzione di Analakely, la zona del mercato, dove sono alloggiata. La sede del fokontany è in cima allo scalone (Antananarivo significa “la città delle mille colline”), a soli 160 gradini di distanza. Mi arrampico di corsa, per timore di trovare chiuso.
10:50: All’ingresso, ancora tutta trafelata, incrocio lo sguardo di una giovane donna che sta timbrando delle ricevute. Le spiego di cosa ho bisogno e le mostro l’attestazione di alloggio rilasciata dal mio albergo. Si allontana. Di li a poco torna a dirmi che devo passare il giorno dopo: devono inoltrare la richiesta al distretto di polizia. Insisto gentilmente perché si prenda cura di me più o meno immediatamente. Il suo buon cuore si decide per un si. Dopo altri venti minuti, il presidente del Fokontany in persona mi chiede di lasciargli il mio passaporto: deve andare dalla presidentessa del distretto, che, UNICA E SOLA, può dare il benestare all’emissione del certificato. Per timore di perdere un’occasione (e il mio passaporto), mi offro di accompagnarlo. Camminiamo per un quarto d’ora, saliamo quattro piani, facciamo dieci minuti di anticamera e finalmente ci riceve, LEI! Esamina attenta e competente l’incartamento. Scuote la testa con disapprovazione: “Nooooo! Il y a un problème!!!”: l’hotel dichiara semplicemente di alloggiarmi, mica di farsi carico delle mie spese! Mi ci serve la certificazione di “prise en charge financière”! Io un po’ me l’aspettavo, ma, per puro desiderio masochista, sto cercando di seguire una logica tutta mia (errore!). Ovvero: è chiaro che io sono “invitata” dall’università di Antananarivo, ma loro né mi pagano né mi danno da dormire. Per cui se mi chiedono un certificato di alloggio per ottenere la residenza, da chi vuoi che me lo faccia fare, se non dall’hotel? Le spiego la mia versione delle cose e lei, non so per convinzione o rassegnazione, si ammorbidisce. Incredibile ma vero, ci dà la sua benedizione (non vedo perché non avrebbe potuto farlo per telefono). Il presidente e io ripartiamo felici, , fumandoci una sigaretta sulle scale del distretto di polizia.
12:00: Stringo tra le mani il certificato di residenza. C’est le bonheur!!
14:00: Mairie du Ier Arrondissement. Il pomeriggio è da dedicare alla certificazione e legalizzazione di tutte le fotocopie in mio possesso: passaporto, visto, carta studente, dichiarazione sull’onore che non ho mai ucciso nessuno etc. etc. La fila non toglie il fiato e gli impiegati sono gentili e disponibili. Ce ne sono almeno 10, direi, dietro a rozzi tavoli di legno. Il loro unico compito è mettere timbri, trascrivere nomi, farti firmare su grossi registri, prima con la penna nera e poi con la penna rossa.
15:45: Ho tutto ciò di cui ho bisogno: un paio di timbri rossi corredati di firme e date su ciascuna delle 7 fotocopie necessarie alla difficoltosa procedura.

Martedì 30 giugno
9:00: Torno all’attacco alla prefettura di polizia. Sono li già all’apertura. Nessun postulante in vista: buon segno? Il poliziotto alla porta mi fa accomodare in sala d’attesa.
9:30: Comincio a chiedermi perché sto aspettando, visto che non c’è nessuno. E difatti, il problema è proprio quello: il responsabile non è ancora arrivato. D’habitude arriva verso le nove e venti (che sono già passate), o le dieci. Vado a prendere un caffè. Al mio ritorno, l’addetto si manifesta, è il caso di dire, in tutta la sua potenza. Presento orgogliosa i documenti. Lei (è una lei) li esamina con cura, per poi dirmi che “Nooooo! Il y a un problème!!!”: manca la certificazione formale del mio vincolo con l’Università di Antananarivo. Ma io ho un asso nella manica: sfodero una lettera del mio direttore di tesi, in cui, oui oui oui!, si menziona la mia affiliazione con l’istituzione malagasy. Primo ostacolo superato.
L’imprevisto è però in agguato: il dossier va corredato della solita foto tessera. Io ne ho sei, ma non le ho ancora ritagliate. Le tiro fuori e mi guardo intorno cercando un paio di forbici. La funzionaria scuote la testa: le forbici non ce le ha. Posso provare a cercarle negli uffici di fianco. Tuttavia, in su, in giù, a sud e a nord, in questa prefettura di polizia, di forbici proprio non ce ne sono. Nemmeno di coltelli. “E come fate – dico - quando dovete tagliare qualcosa?” “Madame, qui non abbiamo bisogno di tagliare niente!”, risponde stizzita l’impiegata. “ E qualora proprio ne avessimo bisogno, ci serviamo del righello”- aggiunge. “Allora proverò col righello” - rispondo, sottomessa alla sua logica. Proprio in quel momento, appare un simpatico tuttofare, che mi porge graziosamente un paio di forbicine da manicure. Ritaglio, radiosa, la foto. Pago i 10.000 Ar (circa 4 € ) di bollo. La funzionaria mi scrive una ricevuta: “Può passare tra due giorni, nel pomeriggio”. “Ma come, tra due giorni? “Eh sì! – fa lei- il prefetto non c’è. Forse tornerà domani, ma non si sa a che ora. Se proprio ha fretta, provi comunque a fare un giro nel pomeriggio. Buona fortuna”. La ringrazio profusamente. L’indomani, alle 15, il certificato è pronto.

Mercoledì 1 luglio
Ottengo la lettera d’invito ufficiale, logo in verde e due firmette, con il timbro dell’Università di Antananarivo.

Giovedì 2 luglio
8:05: Sono pronta ad andare al Ministero dell’Interno con il mio dossier. “Tout dossier incomplet est irrecevable”, ammoniva perentorio il cartello all’ingresso. L’ufficio chiude alle 11. Mi ritrovo però sul taxy-be sbagliato, a vagare per una Tana grigia e piovigginosa ma completamente nuova, in cui scopro quartieri residenziali con vista panoramica, ville dai giardini rigogliosi, licei di prestigio, stradine lastricate e linde chiesette di mattoni rossi. Il mercato di Analakely, brulicante di odori e miserie umane, è lontano, lì in basso. Del lago, quello di Anosy, quello a forma di cuore, nemmeno l’ombra. Tuttavia, la mia mente è serena e rilassata, prende gusto a quella flânerie su quattro ruote. Sprofondo nello spirito del “mora mora”, mi lascio andare agli eventi, faccio scorrere il tempo senza muovere un muscolo, in perfetto silenzio, senza chiedermi il quando, né il perché.
10:00: Il mio spirito illuminista mi suggerisce che se continuo in quel vagabondaggio corro il rischio di non disfarmi del prezioso fardello cartaceo. Balzo giù dal taxy be e negozio una corsa in taxy.
Ma quando non è una scelta, il “mora mora” è un’imposizione. Il taxy rimane imprigionato nei famosi e inevitabili “embouteillages” di Tana: ingorghi giganteschi e ineludibili. Il tempo scorre inesorabile. Io, continuo ad avere fede e un sorriso idiota sulla faccia.
10:50: Sono davanti al Ministero dell’Interno. Mi fiondo all’ufficio dei desideri. L’impiegata, la stessa di lunedì, oggi più espressiva forse perché sta per chiudere, mi riceve. Comincia ad esaminare il mio dossier. Sembra che ci sia tutto, ma… “Nooooo! Il y a un problème!!!! Madame, la demande au Ministre! » - scuote la testa con disapprovazione. Ma io ce l’ho, la Demande!! “La forme, Madame! La forme n’est pas bonne!!” - “Ma perché è scritta a mano?” - “No no, non è quello il problema. È la forma, Madame”. Devo scrivere – e intanto, con fare leggiadro, tira fuori un esempio scritto da qualcuno che se ne intende – COSì!!! Ed è allora che mi accorgo di aver dimenticato di introdurre tutte le formule erudite, tipo: “Caro signor Ministro, Ho l’onore di rivolgermi alla sua Altissima Benevolenza per chiedere bla bla bla…Spero di poter contare sulla sua generosa considerazione bla bla bla…Le faccio pervenire i miei più rispettosi e distinti saluti etc. etc. etc.”. Copio tutto velocemente, nella mia migliore grafia. Il tempo è tiranno. La porta si chiude, ma intanto la signora sta già vergando su un foglietto l’appuntamento per il ritiro del visto, o meglio, del talloncino per il versamento che dovrò fare. Ce l’ho fatta? “Quando scade il suo visto d’ingresso?” “Il 25 luglio, perché?” “Allora può passare fra 3 settimane” “Ma io devo partire in missione in provincia” “Beh…allora passi martedì!” “E perché non lunedì?” “Perché ho già molti dossier da esaminare”. Incredibile ma vero, sono estremamente riconoscente all’altissima benevolenza di questa creatura. Magari martedì mi dirà che il mio dossier è rifiutato. La prego, Madame, non mi dia brutte notizie. Voglio credere che il peggio è passato.
È passato?