lunedì 5 ottobre 2009

Due soldi per apparare una lira

18 settembre: Chi è che diceva: “Ti mancano sempre due soldi per apparare una lira?”. Perché a me questa frase, ovviamente riferita a me stessa, in queste settimane mi torna in mente come un ritornello. È il corollario, la giustificazione, la didascalia ai miei momenti di frustrazione accademica.
Prima di arrivare in questo paese, io la ricerca me la immaginavo diversa: già mi vedevo sbarcare senza preliminari nel villaggio sperduto, salutata da cori e danze, armata fino ai denti di taccuini e registratori e pronta ad afferrare il benché minimo fruscio di eventi. Pensavo di potermi dimenticare della forma, delle anticamere, pensavo, finalmente, di poter dedicarmi al mio lavoro senza dovermi occupare d’altro. Evidentemente, anche se non mi stupisce fino in fondo, sbagliavo.
Invece…
Prima di intraprendere la mia ricerca, ad esempio, mi devo preoccupare di comprare tonnellate di batterie. Così poi non rimango senza proprio nel bel mezzo della registrazione di quell’irripetibile litania. Prima di intraprendere la mia ricerca, mi devo preoccupare di come trovare il modo per arrivare dove devo andare. Perché qui non ci sono automobili noleggiate né persone altolocate che mi offrono un passaggio. E inoltre, prima di occuparmi della mia ricerca, devo cercare di farmi presentare a qualcuno che mi suggerisca qualcun’altro che mi possa accompagnare a trovare quel qualcuno che mi aiuterà a fare la ricerca. E, sempre che questo qualcuno si lasci ammaliare da tanto altisonanti quanto fasulli discorsi di presentazione, prima di intraprendere la mia ricerca devo assicurarmi di avere in tasca un po’ di grana per oliare la raucedine della sua ugola. Perché, ovviamente, non è che la gente faccia esattamente a pugni, per dire la sua nella mia ricerca. E non devo assolutamente dimenticare di abbigliarmi adeguatamente, prima di intraprendere la mia ricerca, perché, anche se l’intervista si fa nel villaggio in mezzo alla selva e per arrivarci si è camminato un’ora e mezza sotto il sole, è importante mantenere un’apparenza curata e professionale, perché sennò, che credibilità hai? E inoltre, prima di intraprendere la mia ricerca, dovrei forse togliermi il vizio di gesticolare tanto e soprattutto di puntare il dito, gesto che faccio puntualmente quando voglio enfatizzare una domanda, visto che qui è considerato di pessima educazione. E, sempre prima di intraprendere la mia ricerca, non devo dimenticare di avere sempre in tasca, preparati con cura, tanti bei questionari, adattati alle circostanze e agli interlocutori, perché magari quel tizio che hai perseguitato per telefono durante tutta la settimana te lo incontri mentre sta facendo la spesa al mercato, o magari, finalmente stanco di sentirlo suonare, decide di rispondere al telefono, e allora ti dice: “O ci vediamo immediatamente o mai più!” e allora, se non sei hai preparato adeguatamente la tua ricerca, hai perso un’occasione di quelle che non si ripresentano più. E un po’ di devozione, prima di intraprendere la mia ricerca, non guasterà mai, visto che qui, a tirare le fila, c’è sempre qualche servo di Dio, che prima di darti una mano, vorrà anche lui assicurarsi che hai ricevuto tutti i sacramenti.
Così, in questa immensità, annega il pensier mio…
Ecco, a me, per fare la ricercatrice, del tipo instituzional-altisonante, mi mancano ancora un po’ di pezzi. Oltre agli accessori sopracitati, mi piacerebbe avere un fuoristrada e un casco coloniale. Poi, una cura bella forte contro la “sindrome di Stoccolma”. Infine, vorrei un aspetto un po’ più autoritario, forse funzionerebbe bene anche solo un’aria veramente da sfigata, degli occhiali spessi, la erre moscia, un atteggiamento un po’ più schifiltoso, di quelli che ti fanno squadrare la gente dall’alto in basso. E forse anche un po’ più di paura, perché se ne avessi, rimarrei tra le gonnelle dell’istituzione, anziché esserne sempre rigurgitata fuori, in situazioni tutte da inventare e nelle quali mi ritrovo quasi sola a credere. Se avessi più timori, cercherei più protezione e per scambio, magari, troverei più appoggi istituzionali. Invece mi ritrovo qui, sul campo, e penso, architetto, proietto e organizzo. E, fino a un certo punto, tutto bene. Taccuini rigurgitanti informazioni. Nastri di testimonianze fresche fresche e per giunta in una lingua che non capisce nessuno. Fino a quando il consiglio di quel tal professore: “Nelle comunità, devi sempre andare per mano di qualcuno!” non si è trasformato in una minaccia: “Se non conosci nessuno, non riuscirai a portare avanti il tuo lavoro!”. Dov’è, dov’è finito il mio Ogotemmeli? Dove sono finiti gli stuoli di informanti e di interpreti dei miei libri di testo? Dove sono le istituzioni?
Ecco, sono questi i due soldi che mi mancano, che mi sono sempre mancati per apparare una lira! Avere le chiavi giuste, le presentazioni che mettono in soggezione, le parole magiche che aprono le porte. Qui come altrove, la logica è sempre quella: se non ti manda nessuno, nessuno si accorgerà che sei arrivato.

E allora, faccio un passo indietro e cambio strategia. Esercitando la neo acquisita virtù della pazienza biblica, aspetto di essere contatta dal parroco delle comunità zafimaniry, che si è offerto di accompagnarmi e ospitarmi. Certo, l’alternativa sarebbe stata andarci con delle guide turistiche. Ma mi dite voi come si fa ad ottenere informazioni sincere e volendo anche critiche, se quello che ti fa da interprete ha tutti i suoi interessi in gioco? Scartate quindi le circa trenta guide turistiche, tra abusive ed ufficiali, scartato il segretario regionale del Ministero della Cultura, che dopo il solito ritornello di presentazioni, fraintendendo evidentemente la mia richiesta, mi ha guardato stupito da dietro i suoi occhialetti e mi ha detto: “Sarei felice di poterla accompagnare, ma vede, io qui sono solo, ad occuparmi di tutto (!!) e poi, non ho nemmeno l’automobile. Che ne direbbe se le consigliassi una guida amica mia? Di altra gente, non è che ne conosco”; aspetto Padre Max. Il parroco, appunto. Una vera manna dal cielo, verrebbe da dire. Ma il padre in questione, tra le sue pecorelle smarrite mica ci vive. Le visita, di tanto in tanto. E quindi, io aspetto che la chiamata arrivi. Da dieci giorni. Una pausa necessaria, prima di intraprendere la mia ricerca.

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