lunedì 19 ottobre 2009

Qualche nota sugli Zafimaniry

Nel cuore degli altipiani del Madagascar, a est della cittadina di Ambositra, vivono gli Zafimaniry. Il loro mito fondante vuole che, due secoli or sono o giù di lì, questo gruppo di origini Betsileo si rifugiasse tra le montagne per sfuggire alla deforestazione incipiente e alla coscrizione obbligatoria imposta dai conquistatori Merina.
Che sia stato per desiderio di boschi intatti oppure di libertà, questa gente ha vissuto praticamente isolata per diverso tempo, su cime di difficile accesso e perennemente avvolte di bruma, praticando una agricoltura di sussistenza a base di mais, patate dolci, taro e manioca, ottenuta col sistema del “taglia e brucia”: tagliano alberi e arbusti, li lasciano seccare al sole, poi appiccano un fuoco controllato col quale liberano la parcella che diventerà terra di coltura. Dopo il raccolto, prima di ritornare sullo stesso appezzamento, lasciano riposare per un paio d’anni. Questa tecnica, che risparmia la fatica di dissodare e arare, ha però come conseguenza che, dopo due o tre rotazioni, la terra, esangue, non produce altro che felci e sterpaglia. Attualmente questo gruppo conta circa 50.000 persone sparsi in circa un centinaio di villaggi che, come il resto del Madagascar, sono in costante crescita demografica. Se è vero che siano fuggiti sulle montagne per “desiderio” della foresta (Zafimaniry significa, infatti, “discendenti che desiderano”), è indubbio che la foresta l’hanno amata fino ad ammazzarla: la distesa boscosa di un tempo è oggi ridotta ad un corridoio che si restringe ad ogni giorno che passa. “Maty ny ala” - ti dicono - “la foresta è morta” e sembrano alludere ad una catastrofe inevitabile con la quale loro non hanno niente a che vedere. Ma la foresta, da sola, non muore: sono gli Zafimaniry che se la stanno, quasi letteralmente, mangiando.
Tuttavia, non è per rimproverarli che sono andata a conoscerli!
Grazie alla loro tradizionale simbiosi con il bosco, gli Zafimaniry hanno infatti sviluppato una grandissima abilità nella lavorazione del legno. Quasi tutto, nel loro mondo, viene dalla foresta: le case, interamente di palissandro, sono autentici capolavori di incastro, costruite senza nemmeno un chiodo, completamente smontabili e con porte e finestre finemente scolpite; gli sgabelli su cui siedono sono ricavati da un unico blocco di legno; i grossi contenitori con i quali un tempo, quando la foresta era ancora lussureggiante e generosa, andavano a raccogliere il miele selvatico, sono tronchi scavati; i sepolcri famigliari sono pesanti sarcofagi, i più antichi dei quali assemblati con due soli blocchi di un unico tronco. Nella loro vita quotidiana, gli Zafimaniry riconoscono e utilizzano circa 23 tipi di legni diversi, ognuno con una sua precisa funzione. Questa incredibile maestria è stata dichiarata, nel 2003, Patrimonio Intangibile dell’Umanità dall’Unesco. Ma mentre la loro arte diventa Patrimonio Universale, la risorsa che permette loro di esserne maestri scompare lentamente (ma nemmeno troppo) e senza nessun clamore, distrutta proprio da coloro che dovrebbero esserne i custodi.
Ciononostante, il paese degli Zafimaniry continua ad offrire una panorama di straordinaria bellezza e ad essere meta di numerosi turisti, che si avventurano in trekking di uno o più giorni, per visitare quelle piccole meraviglie di palissandro nascoste in mezzo alle montagne.
Così, eccomi là, a osservare interazioni e cambiamenti derivanti dal contatto con lo straniero, in un mondo vegetale in cui la richiesta di regalare bottiglie di plastica vuote e la presenza di qualche telefonino (che però funziona soltanto se ti arrampichi in cima alla montagna), rappresentano il primo, ma non certo l’ultimo, segno del peggio della globalizzazione che avanza.
Ho trascorso nel paese zafimaniry circa tre settimane, durante le quali ho incontrato e discusso con i notabili del villaggio e con tutti coloro che, in una forma o l’altra, possono essere implicati direttamente o fungere da osservatori privilegiati nell’incontro turistico. Sono state tre settimane fisicamente impegnative perché, per spostarmi da un villaggio all’altro, ho dovuto fare del trekking - il diversivo naturalistico del turista – la condizione necessaria per il mio lavoro. Per raggiungere i vari villaggi infatti bisogna salire su su per la montagna e poi riscendere a valle: una, due, tre volte, tante quante le valli e le montagne, su sentieri dissestati che finiscono spesso sugli esilissimi ponti che attraversano innumerevoli rigagnoli e che poi si abbarbicano su per le pareti di granito. Un passo dopo l’altro, finisci per percorrere almeno una quindicina di chilometri ad ogni spostamento. Ad ogni nuovo percorso, ti viene da pensare che, da qualunque cosa stesse fuggendo quando venne ad installarsi quassù, questa gente ne doveva avere una fifa tremenda! Questi stessi sentieri per gli Zafimaniry sono il pane quotidiano giacché li percorrono a passo incredibilmente svelto ogni giorno, per andare e tornare dai campi e dal bosco. Il mercoledì, giorno di mercato, nutrite carovane di gente, provenienti dai quattro punti cardinali, attraversano in fila indiana le montagne in direzione di Antoetra, il capoluogo della comune, dal quale tornano trasportandosi i loro carichi, le donne sulla testa, gli uomini sulle spalle. Al mercato gli Zafimaniry ci vanno per comprare, quasi mai per vendere, e si muovono in gruppo per paura dei briganti che, crudele ironia, in questi tempi di povertà diffusa trovano lucrativo derubare persino dei semplici contadini.
Ad ogni arrivo in un nuovo villaggio, prima di poter parlare con possibili informanti per la mia ricerca, mi toccava poi attendere pazientemente la sera, perché fino all’imbrunire per strada ci sono solo bambini: chiunque ha braccia forti è al lavoro nei campi. Ovviamente, non tutti i villaggi Zafimaniry ricevono le visite dei turisti: del centinaio che ho menzionato, ne avrò visitati una quindicina e solo quattro possono dirsi a pieno titolo “a vocazione turistica”. Curiosamente, questi quattro non sono necessariamente i più belli, ma solamente i più accessibili. Ancora più curiosamente, i loro abitanti di turismo ne sanno poco o niente, nonostante ricevano una media di un migliaio di visitatori all’anno. Per loro il turismo è gente bianca che viene a fare delle foto, e tutto ciò che sperano è che gli lascino penne, quaderni e qualche maglietta usata, cosa che invece, da un diverso punto di vista, è proprio il peggio che gli potrebbe capitare. Ancor meno, sempre più curiosamente, sanno di essere “Patrimonio Intangibile dell’Umanità”. Paradossale, no?
Ma del resto che senso potrebbero avere per loro queste etichette? Le definizioni sono utili solo per chi sa come usarle e in molti casi servono a riempire dizionari e guide turistiche. È vero, la foresta brucia e con essa il futuro delle generazioni. È vero, il turismo potrebbe forse diventare un’efficace leva di sviluppo e contribuire alla salvaguardia della natura. Tuttavia, dopo qualche scambio con la gente del posto, ti viene il dubbio su da che parte stare, se con chi conserva o con chi distrugge. A questi ultimi, in fondo, che alternativa si propone? Il futuro sta da un’altra parte e per loro non è ancora imprescindibile cominciare ad immaginarlo, soprattutto a stomaco vuoto. E poi ancora, che ne può sapere del turismo questa gente che non è mai stata nemmeno in capitale? La loro è una “vocazione turistica” loro malgrado, che nessuno gli ha mai spiegato che cos’è né come potrebbero usarla per non essere costretti ad elemosinare.
Fuori dalle pagine dei libri dunque la visione del mondo è sempre più complessa e sfumata. Le parole, per essere sufficienti a descriverla con giustizia, devono attraversare innumerevoli ostacoli culturali e scendere giù nelle valli del significato.
Ma poiché questi per il momento vogliono essere solo frammenti, che mai hanno preteso di riuscire a dirla tutta sulla realtà di quest’isola, comincerò raccontando delle storie.

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