lunedì 14 settembre 2009

Quattro mura e una porta che non si apre: una visita al carcere di Ambositra

Dall’esterno non si nota nemmeno. È un edificio a un piano, simile a tutti quelli governativi, con la bandiera malgascia che penzola sull’entrata. Ci andiamo di domenica. Tantely e Lova, due piccoli ospiti della casa, vanno a trovare le loro mamme. La sorellina di Tantely è li rinchiusa, con la mamma che fa dentro e fuori tra una gravidanza e l’altra: ruba, entra, scappa, si innamora ogni volta di un uomo diverso, poi torna a consegnarsi, perché in fondo un tetto, in certe circostanze, male non fa. Ad ogni fuga, la pena cresce e si accumula. Ne avrà ancora per un bel pezzo. Quando arriviamo, la scena è diversa da come la si potrebbe immaginare. Tantely non le corre incontro, non le butta le braccia al collo. Quella bambina che prima sorrideva, adesso è contrariata. Accetta di andarle in braccio ma è come ammutolita. La guarda con distacco. L’altro bimbo, Lova, non è nemmeno così diplomatico: appena vede la sua, di mamma, scoppia in singhiozzi disperati. Volenti o nolenti, rimarranno lì fino a stasera.
Il carcere di Ambositra ospita 20 donne e circa 300 uomini. L’accusa più comune è il furto, ma tra gli uomini ci sono anche assassini e stupratori, per la serie “di tutto un po’”. Alcuni detenuti sono in attesa di processo, altri sono già stati condannati, ma vai tu a capire come funziona la legge, in un paese corrotto come questo e per qualcuno che non si può permettere nemmeno un avvocato d’ufficio.
Dopo aver visitato la sezione delle donne, aspettiamo, seduti al sole, prima di passare alla sezione degli uomini. Chi immaginava sbarre e filo spinato, ovviamente si sbagliava. Le porte sono fatte di assi di legno, una scritta a gessetto con le O a forma di cuoricino invoca l’aiuto del Signore, il lucchetto è cinese e le chiavi ce le ha una guardia dall’aria assolutamente corruttibile. “La gente alla fine mica sta tutto il tempo li rinchiusa” – dice Giovanna - “Guarda che le guardie se li portano pure a casa, li fanno lavorare come schiavi, e mica gli danno un piatto di riso, altro che!" Le guardie, intanto, sono li. Ce n’è una vezzosa, femmina, che sembra essersi appena comprata l’uniforme nuova, tanto è bella, pulita e stirata. Nello stivale ti ci puoi quasi specchiare. Ce ne sono altre due, dall’occhio ubriaco, che soppesano pigramente le opzioni per vincere la partita a domino. Un altro, invece, si affaccenda tirando a lucido le canne di un’intera partita di fucili, che sembrano recuperati alla svendita del museo del Risorgimento: come il resto delle armi in dotazione all’esercito malgascio, sono tutti uno diverso dall’altro e la prima pallottola l’hanno sparata almeno vent’anni fa. Il quadretto è completato da un detenuto che, seduto in anticamera, sta usando una specie di cavatappi per fare un massaggio ai piedi, pare contro l’ipertensione, ad una familiare venuta in visita.
La domenica, in carcere, è un giorno speciale: al miserrimo rancio statale, che prevede 50 gr di manioca secca a testa al giorno, in un’unica razione che ognuno cucina per sé, si aggiungono riso e carne, dono delle suore della carità. Meno male che ci sono le feste comandate! Purtroppo, da quel grosso sacco di riso venuto da fuori, la guardia tira fuori solo una piccolissima quantità, chiaramente insufficiente per tutti. Il resto sparisce dentro il magazzino. La guardia gira la chiave nella toppa e se la intasca, come tutto il resto.

Entriamo nella sezione degli uomini. Uno spiazzale grosso quanto un campo di calcio, circondato dagli edifici in cui si trovano le camerate. Andiamo a dare un’occhiata: sono completamente spoglie. Difficile dire in quanti siano a dormirci. Le stuoie e le coperte sono ripiegate e ammassate negli angoli. C’è l’odore acre del chiuso e dell’affollamento.
Nello spiazzale, la prima impressione è di assistere ad una replica della vita che c’è fuori, al netto di rumori e donne. Se nelle prigioni europee l’individualità si dissolve nelle uniformi, in questo carcere ciascuno conserva il proprio stile. Così incontri il giovane rapper e pure il contadino. Chi era povero fuori, lo rimane anche dentro. La gente parlotta in gruppettini, qui e lì si vendono mucchietti di noccioline, c’è chi gioca a dama con le pietre, chi si cucina la manioca bollita. Non c’è aria di disperazione, piuttosto di attesa rassegnata. Del resto, i malgasci sanno attendere meglio di qualsiasi altra cosa.
Giovanna saluta tanta gente e con ciascuno si ferma a scambiare qualche parola. È l’immagine del mondo di fuori, delle notizie che arrivano, forse è anche una speranza di intercessione, di libertà…chissà. Da lei veniamo a sapere che due ragazzini che fino a qualche giorno prima andavano a registrare nel suo studio, sono dentro per marijuana.“Ma ci pensi tu! Mi hanno detto che se non ti fai qualche canna non tiri fuori l’artista che c’è in te! Però adesso, qui dentro, che cosa gli toccherà tirare fuori, in mezzo a ‘sti banditi?”Attacchiamo bottone con un tipo che dice di essere il secondo imam di Ambositra. È arrivato in città 18 mesi fa, e dopo 8 è finito in carcere, proprio mentre la sua opera di conversione cominciava a dare frutti. L’accusa: violenze sessuali e torture a minore. Ma per lui la condanna che gli hanno inflitto non è che una jihad all’incontrario, una guerra santa contro la diffusione della fede islamica. Volevano un capro espiatorio e hanno trovato lui, ma l’Unione Musulmana Malgascia riuscirà a tirarlo fuori, Inshallah!. Mi ha quasi convinta della sua versione, quando Giovanna, che ne ha conosciuto la vittima, la smentisce con decisione:“É solo un pedofilo bugiardo!”. Ecco quindi come si mette la verità in equilibrio sul filo del dubbio! Ecco come si crea, un’altra verità, ridotta a un modo convincente di raccontare una menzogna!
Suona una campana. È l’ora della messa. Il prete non è arrivato, ma la preghiera si organizza comunque, in una piccola cappella. Tanti i presenti. Nella vita di fuori, la messa è una roba soprattutto da donne. Ma qui è tutto diverso. C’è più bisogno di Dio. Faccio scorrere lo sguardo sui loro volti: quale indizio potrebbe rivelare il crimine che hanno commesso? Che storia raccontano i loro occhi? Sono vittime? Della società, degli errori giudiziari, della miseria? O carnefici? Di persone più deboli, più povere? Guardandoli in volto, è difficile distinguere l’innocenza dalla colpevolezza. La vicinanza fisica di questi uomini te ne fa sembrare i delitti una possibilità incredibilmente remota. È sempre più facile condannare il protagonista di una notizia sul giornale che il tuo vicino di panca. Per lui, di cui senti il respiro e vedi gli occhi, sembri quasi portato a trovare una scusa. Un pensiero ingenuo che cancelli il suo passato. Un’accusa rivolta alla storia che assolva le sue colpe individuali.
Il canto che chiude la messa mi riporta alla realtà. Il laico che l’ha officiata chiede a Giovanna di presentarci e l’assemblea ci ringrazia della visita con un applauso. Mi accorgo dello straordinario che può aver rappresentato la nostra visita.
Sulla strada di casa, lo scopo di questo carcere sembra esaurirsi nella separazione della gente di dentro dalla gente di fuori. Il marcio dal sano. Nessun tentativo di rieducare, di raddrizzare, di riformare. Semplicemente una pausa tra un delitto e l’altro. Ma sappiamo anche che, al di là delle nostre impressioni, la vita là dentro deve essere molto più dura di quella che ci è sembrato oggi, che era pur sempre domenica.

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