mercoledì 2 settembre 2009

Tauromachie

Ogni mondo è paese. È una frase qualunquista, lo so, ma quando viaggi, ne scopri il perché. Il mio amico Sisco qualche tempo fa mi diceva – e mi perdonerà se nel citarlo ci metto anche del mio - che l’obiettivo del viaggio è scovare le similitudini e meravigliarsi delle differenze. Simile con simile, anche qui ho trovato una specie di corrida, come nel paese che mi accoglie in quello che, ironicamente, mi piace chiamare esilio, soprattutto perché è a quel paese, che me ne ha dato la possibilità, che devo quest’altro.
Fin, bref…anche qui in Madagascar c’è una forma di tauromachia. Si chiama savika o tonolon’omby e si celebra soprattutto nel nord degli altipiani, proprio e quasi esclusivamente in questa stagione. Noi vi abbiamo assistito ad Ambositra, una cittadina di 30.000 abitanti a sud di Antananarivo.
Il fine della savika è tutt’altro che simile a quello della corrida, ma il mezzo è lo stesso: giocare con dei tori, dimostrando che l’uomo è superiore alla bestia. Tuttavia, mentre nel corrispettivo iberico la lotta è impari dal primo suono di trombetta, qui non ci sono né lame né bandierine né armature. In Madagascar l’uomo, a piedi nudi e armato solo di un bastone, può vincere solo se riesce a dominare la bestia con la forza. Il ché equivale, nel nostro caso, a prenderlo per la gobba. Ovviamente, inutile puntualizzare, la versione malgascia del toro è uno zebù.
La lotta avviene all’interno di un recinto non più ampio di 10 metri per 10 e circondato da uno steccato alto poco più di un uomo. Appollaiati sul bordo di questo, ci sono i giocatori, più o meno una quindicina. Dalla loro posizione di vantaggio, molestano discretamente lo zebù, se necessario scendono nell’arena e lo aizzano per fargli cambiare direzione, tentando, appena possono, di gettarcisi al collo. Ci sono 3 modi di acchiapparlo: per la gobba, per il collo o per le corna. Attenzione quindi alla forma di queste ultime. Lunghe e arcuate: positivo! Corte e massicce: marca male! Con le corna lunghe ci si lascia incastrare, mentre le corna corte permettono sempre allo zebù un certo margine di manovra. Essere afferrati e scossi é sempre meglio che ritrovarsi incornati e divelti, per cui: “ny olo napivarahana dia manana hery roa” - un uomo avvisato, vale per due, come dicono da queste parti.
Una volta addosso allo zebù, la destrezza sta nel cercare di rimanerci il più a lungo possibile, sfidando la resistenza dell’animale che, come in un rodeo, trascina il contendente in un alquanto pericoloso balletto. E se anche in Spagna quello che contano sono coraggio e sangue freddo, qui però il corpo a corpo c’è. E qui, lo zebù, una volta finito il gioco, esce dall’arena con le sue proprie zampe. Mica lo si uccide, mica lo si dissangua. I malgasci non sono mica matti, a fare a brandelli il loro braccio forte nel lavoro dei campi, il termometro più accurato della loro ricchezza, l’equivalente di una torta sempre pronta, da spartire quando c’è qualcosa da festeggiare, siano matrimoni, funerali o ritrovata salute. Lo zebù è moneta sonante su quattro zampe. Quanti toreri dipendono dalla vita del toro per andare avanti? Forse per questo, qui la tauromachia è ancora un gioco, non una guerra crudele. Tra l’uomo e la bestia c’è ancora un legame profondo, cementato dalla terra e dal lavoro, dal ruolo che lo zebù svolge nell’economia di una società rurale. Ed è questa complicità a dettare le regole della contesa.

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