lunedì 19 ottobre 2009

Dentro una tranomena

Tra i vari villaggi zafimaniry che abbiamo visitato, un posto speciale merita Sakaivo Avaratra, un agglomerato di una cinquantina di casette di legno ai piedi del cocuzzolo di Laibory, ad una altezza di 1450 m. Il villaggio è presieduto da un collegio di anziani, un membro dei quali, Rakoto Emanuel, ci ha offerto ospitalità durante il nostro soggiorno. Rakoto ha 73 anni ed è un ospite eccezionale, uno di quelli che il futuro ad immaginarlo ci ha già provato: pur non parlando una parola di francese, ha costruito una casa per accogliere i turisti proprio accanto alla sua; ha insistito perché le guide insegnassero a suo nipote Desy a cucinare all’europea, così, quando ci sono visite, anche lui riesce a rimediare un po’ di soldi; ha costruito un rudimentale gabinetto e un vano doccia: piccoli confort di base che dopo una giornata di cammino si fanno apprezzare. L’atmosfera che si crea è talmente semplice e familiare che il vazaha riesce a dimenticare per un attimo il suo pallore e si rilassa per apprezzare il calore di un’ospitalità tradizionale. A fare il resto ci pensa il largo sorriso di Rakoto e due o tre goccetti di toaka, il rum locale: l’incantesimo è fatto.
La casa di Rakoto, come quasi tutte le case di Sakaivo, è una casa tradizionale zafimaniry. La tranomena, così è che si chiama, segue una precisa disposizione geografica, che rievoca, con alcuni tratti comuni anche ad altre case tradizionali degli altipiani, le origini e le credenze di un popolo i cui antenati arrivarono dalla Malesia a bordo delle piroghe. Tutte le case del villaggio sono allineate lungo l’asse nord-sud, con l’apertura rivolta ad ovest per proteggerla dagli alisei, i venti carichi di pioggia che soffiano da est. L’angolo sud-est, che in questa cosmologia metaforica e miniaturizzata rappresenta l’Oceano Indiano, è quello in cui normalmente si conserva l’acqua, ossia il grosso bidone con la riserva giornaliera che ogni mattina viene riempito alla fonte. L’angolo nord-est invece è quello ben augurante, dedicato alla memoria degli antenati provenienti dall’Asia (che si trova appunto a nord-est del Madagascar), e al “masoandro”, che tradotto letteralmente diventa “occhio del giorno”: è così che i malgasci chiamano il sole. In quest’angolo, prima di dare inizio ai brindisi e ai discorsi di benvenuto per i nuovi arrivati, si rivolge un breve ringraziamento agli antenati, offrendo loro qualche goccia di rum.
Anche la casa di Rakoto rispetta questa disposizione. Nella zona sud c’è il focolare, costituito da tre pietre, che rappresentano padre, madre e figli che reggono la pentola con il cibo che li nutre. La cappa di aereazione però non c’è, cosicché l’ambiente è costantemente invaso dal fumo: l’unico modo per far smettere di lacrimare gli occhi è accovacciarsi su bassi sgabelli, rimanendo al di sotto della spessa nube tossica. La fuliggine che annerisce tutto offre però un vantaggio: impregna le pareti e impermeabilizza l’interno della casa, rendendola così più resistente agli agenti atmosferici. Con questo piccolo trucco una tranomena, pur essendo fatta interamente di legno, riesce a resistere fino a 300 anni! Nella stanza non c’è altro arredo che le nattes, i tappeti di rafia su cui gli zafimaniry, e i malgasci di campagna in generale, mangiano, conversano, e spesso dormono anche. Un nutrito corredo di nattes e qualche sgabello è difatti la prima dote per una ragazza da marito.
Dal canto nostro, devo ammettere che abbiamo avuto una certa fortuna, perché siamo capitati a casa di Rakoto durante una grossa riunione di famiglia in occasione della seconda semina della risaia. Secondo una tradizione che purtroppo va facendosi sempre più rara, in Madagascar per i lavori agricoli più importanti si fa appello alla solidarietà di tutto il clan, che si riunisce per dare una mano, senza aspettarsi altro in cambio che condivisione del pasto, ringraziamenti sentiti e brindisi di rito. Queste riunioni, oltre all’evidente fine pratico, sono estremamente importanti per cementare i vincoli parentali, giacché costituiscono momenti di incontro e conoscenza tra tutti i rami della estesissima famiglia, momenti quindi per discutere di unioni, di nascite e di morti.
Quando siamo arrivati a casa di Rakoto, nella tarda mattinata di venerdì 2 ottobre, tutto il clan era quindi al gran completo, e tra uomini, donne e bambini, saremo stati una cinquantina. Nell’ala sud della casa, riservata alle donne, bolliva il grosso pentolone colmo di mais destinato a sfamare gli operai, che in quel momento erano al lavoro nella risaia. Rakoto ci ha accolto invece nella parte nord, quella normalmente riservata agli uomini. Dopo un brindisi all’europea con una rinfrancante birra THB, il pomeriggio è trascorso tra piacevoli chiacchiere e una visita alla risaia, per dare un’occhiata allo svolgimento dei lavori. A ora di cena, la casa si è affollata di gente. Non si è fatto in tempo a ingollare l’ultima cucchiaiata di riso che già cominciavano brindisi e discorsi: un sorso al capofamiglia – Rakoto - e uno all’ospite! Un cicchetto al capoclan – Rakoto - e uno anche al vazaha! Un brindisi per l’anziano del villaggio - sempre Rakoto! - e uno a suo cugino!!! E così via trincando, finché la sbronza ha ucciso la conversazione e sono cominciati i canti e i controcanti, che a gole spiegate sono andati avanti per un bel pezzo della notte. In tutto ciò, si beveva a turno e tutti dallo stesso bicchiere. Meno male - pensava il mio demone igienista - che con i suoi 80° a uccidere i germi ci pensa l’alcol!
Anche la presenza mia e di Vince, la cui parlantina malgascia si scioglieva mano a mano che aumentava il livello alcolico, costituiva tutto sommato un piccolo evento. Ma in fondo, il vero protagonista della serata era l’aiuto reciproco, quella solidarietà familiare così delicatamente raffigurata in uno dei motivi scultorei più cari agli Zafimaniry. Quello il cui motto è: l’unione fa la forza.

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