domenica 29 novembre 2009

Stand-by da riflessione etnografica

Questo filo di pensieri é momentaneamente in stand-by da riflessione etnografica!!
Il tempo scorre veloce, il 25 gennaio ritorno al vecchio continente, alla mia vita, ai miei soliti percorsi, che eppure mi sono mancati e mi mancano tanto, in questa realtà a volte cosi estraniante, a volte cosi familiare.
Rispetto alle vere ragioni per cui sono qui, mi si impone di fare un punto della situazione.
"Dobbiamo trovare strumenti di misura di cui il mondo non conosce la scala, disegnare da soli i nostri schemi, ricevere una reazione, stabilire collegamenti, ridurre l'errore, cercare di imparare la funzione reale...puntare su quale incalcolabile trama?" (Thomas Pynchon - Arcobaleno della gravità)
In parole non mie, é questo il compito che mi spetta.
Eppure tornero' a riallacciare questa trama...ho solo bisogno di un po' di tempo per pensarci su...

mercoledì 4 novembre 2009

Quale Madagascar?

Spesso le cose, quando le guardi da vicino, ti rivelano particolari inattesi. Come quelle superfici che sembrano bianche e compatte e invece, se ti soffermi a studiarle con lo sguardo, nascondono solchi, anfratti e crepe, interstizi nei quali pulsa tutta una vita, una trama di microstorie che all’inizio non avevi notato.
Madagascar è un nome evocativo, il nome di un’immagine da cartolina, con lunghe spiagge bianche e mare luminoso, foreste dense e paradiso degli animali… Eppure, appena ci entri dentro, questa immagine ti rivela che, nei suoi chiaroscuri, si annidano storie di mille e una contraddizione. E ti racconta non solo di lussureggiante vegetazione, ma anche di altipiani senza alberi; non solo di sabbia fine, ma anche di scarsezza d’acqua potabile; non solo di avventurose discese in piroga, ma anche di “strade impossibili da percorrere in cui le distanze si misurano in ore e non in chilometri”; non solo di romantiche capanne in riva all’oceano, ma anche di case di terra dalle mura così esili che sembrano disegnate dalla matita di un bambino. Ti racconta di una grande isola con l’atmosfera di un continente, ti racconta sì di un paradiso, ma anche dell’inferno.

Lo chiamano Paese in via di Sviluppo, ma verso quale sviluppo si muove, questo Madagascar?
Quando ero piccola li chiamavamo Paesi del Terzo Mondo, una definizione che, a posteriori, mi sembra avere almeno un pregio: quello di evocare un’alternativa tra modi di vita possibili, tra maniere diverse di risalire la china. Opzione numero uno, numero due e numero tre, e benché implicitamente stiamo dicendo che una è più valida delle altre, anche quelle meno desiderabili conservano una loro ragion d’essere. Paese in via di Sviluppo, invece, sembra avere un sapore escatologico e universale: come se tutti si stessero muovendo, in maniera lineare e univoca, verso un’unica grande meta, che noi abbiamo invece già raggiunto: lo Sviluppo, quello con la esse maiuscola. Che poi che cos’è? Educazione, salute, acqua potabile e elettricità per tutti? Strade, tecnologia, dinamismo commerciale? Abbondanza, scelte, consumi? Come dice l’antropologo Arturo Escobar, “tutti ripetono la stessa verità di base, vale a dire che lo sviluppo consiste nell’aprire la strada alla realizzazione di quelle condizioni che caratterizzano le società ricche: industrializzazione, modernizzazione agricola e urbanizzazione”. Se lo interroghiamo, il concetto di Sviluppo, sembra parlarci soprattutto di noi, del nostro Occidente, del quale gli altri Paesi dovrebbero sbrigarsi a diventare una copia, così finalmente avremo nuovi mercati in cui vendere e altri specchi che, rinviandoci la nostra panciuta immagine riflessa, ci confermeranno che abbiamo fatto la cosa giusta, diffondendo benessere e civilizzazione nel mondo intero.
Ecco dunque: ho messo il naso in questa immagine patinata e ho cominciato a vederne gli angoli di colore sbiadito, qualche chiazza di nero e i conti che non tornano per niente, per cui mi viene da riflettere sul potere creatore delle definizioni, sui limiti e le ambiguità dei concetti.
Che cosa diciamo, quando diciamo Paese in via di Sviluppo? Innanzitutto, una realtà che definiamo per negazione, un’entità sospesa indefinitamente in un “non ancora” che, forse, sottomette il tempo ai criteri di una presunta logica universale che, dal canto nostro, diamo abbastanza per scontata, senza chiederci mai se ci sono altre logiche possibili. Non è forse vero che, quando diamo un nome alle cose, esercitiamo su di esse una forma di potere, molto spesso pervaso di ideologia, in virtù del quale, per esigenze di chiarezza, le oggettiviamo, determinando il modo in cui esse esistono? È sempre Escobar a dire, “lo sviluppo è stato il meccanismo primario attraverso cui il Terzo Mondo è stato immaginato e ha immaginato se stesso, marginalizzando o precludendo in questo modo altri modi di vedere e di agire”. E questo ha fatto si che quello che ora incontriamo, quando ci muoviamo nei paesi in via di Sviluppo, è una realtà definita per mancanza, per sottrazione, per negazione rispetto al confronto con la nostra. Oggetto, a fasi alterne, di commiserazione, rifiuto e assistenzialismo.
Ma voglio sdrammatizzare! L’antropologia da sola già mi da abbastanza gatte da pelare, figurati tu condirla con delle complicate teorie sociali! Eppure, se mi trovo a riflettere su questa cosa, è perché, se c’è un vantaggio nel fatto di essere in apprendistato antropologico, è quello di trovarsi a decostruire i propri giudizi di valore. Provando quindi a fare tabula rasa, ho incontrato nel mio bagaglio un pezzo dell’immaginario a cui fa riferimento Escobar. E parlando con altri vazaha che ho incontrato, mi sono resa che anche loro ce l’avevano, e questo gli impediva di vedere il Madagascar per quello che è veramente. Il nostro immaginario ci impedisce di venire alla resa dei conti con la complessità del reale, con le contraddizioni di un inferno che si trova in paradiso!
La ragione per cui ho detto tutto questo è che a volte penso che il mormorio dell’Occidente ci ha storicamente impedito di ascoltare cosa gli Altri avessero da dire, su che cosa sono e sul futuro che desiderano. L’idea di Sviluppo che questi paesi rincorrono è un’invenzione dell’Occidente. Per questo essi dipendono da noi per realizzarla. Forse, se le liberassimo da questa immagine per negazione che hanno di sé, queste società ritroverebbero la propria identità e comincerebbero a sognare il proprio futuro. Lo so, inventare nuove teorie non basta a cambiare la realtà, ma ci fa fare il primo passo per ripensarla. Vince una volta ha detto: “la vera povertà è l’impossibilità di avere dei sogni”. E forse, aggiungo io, anche trovarsi a sognare i sogni degli altri.
Come diceva Luis Mallart: “¿Por qué no nos callamos un momento, dejamos de proponer temas de conversación, y escuchamos lo que ellos libremente tienen que decir sobre África –si es que les apetece hablar de África-“.