sabato 4 luglio 2009

Questioni di forma: a passeggio nei corridoi della burocrazia malagasy per prolungare il visto di soggiorno.

Lunedì 29 giugno
8:00 in punto: Sono davanti al Ministero dell’Interno, vicino al lago di Anosy, quello che, secondo la Guida del Routard, ha la forma di un cuore. L’impiegato del ricevimento dice che per le pratiche di visto è alla porta 10 che devo andare, nell’edificio accanto. Quello che non dice è che aprono alle nove. Mi siedo e aspetto, paziente e con un sorriso idiota in faccia, risultato del training autogeno che sto già facendo da qualche giorno in preparazione del “percorso del combattente”.
8:30: L’edificio si comincia ad animare di impiegati che arrivano alla spicciolata: signore abbigliate con cura, tacchi alti e una scia di profumo, funzionari inamidati nei loro abiti blu. Approfitto per ricopiare a mano la lunga lista di quasi 20 documenti (+ 7 foto) necessari per ottenere l’autorizzazione. In un silenzio bizzarro, sono già le nove.
9:00: “C’est le lever du drapeau”, mi dicono. Si esce tutti fuori e, impettiti e rispettosi, si aspetta che il tricolore malgascio venga issato sul pennone, accompagnato dalle note dell’inno nazionale e dalle parole di un ignoto funzionario. Celebrata la cerimonia, mi accingo a rimettermi in fila allo sportello. Arriva l’addetto al montaggio computer. Pare che durante la notte, e quindi ogni sera, i computer dell’ufficio informazioni vengano pazientemente spostati e trasportati in un – immagino- luogo più sicuro.
9:30: Fa il suo ingresso un’impiegata, labbra purpuree, pettinatura sbarazzina. Prima di rivolgersi a me, che ovviamente sono la prima della fila, guarda assorta un numero imprecisato ma voluminoso di pratiche. Passaporti francesi, cinesi e comoriani: gli immigrati che bussano alla porta della Grande Ile. Quando finalmente alza lo sguardo, scopro di essere – bien sûr - nella fila sbagliata. Devo uscire dall’edificio, fare il giro e andare sul retro. Eseguo.
Mi accoglie una signora dallo sguardo vacuo e un po’ infastidito. “J’ai des doutes par rapport à la liste de documents, Madame” - le dico. Snocciola qualche monosillabo, mi fa addirittura dubitare che capisca il (mio) francese, ma tra una cosa e l’altra, mi aiuta a decurtare dalla lista di autorizzazioni un paio di voci. Quando tutti i miei dubbi hanno ricevuto risposta, mi apro in un largo sorriso, ringrazio profusamente e mi incammino verso l’uscita.
10:00: Da una rapida valutazione, risulta che la prima tappa del percorso è la prefettura di Polizia di Tzimbazaza. Decido di prendere un taxy, ma forse la mia intenzione non è abbastanza esplicita, visto che il gentile tassista si limita a darmi le direzioni per arrivarci a piedi. Inciampo in una transenna e cado distesa a terra. Mi rialzo e procedo.
Dalle informazioni raccolte da due o tre passanti, realizzo che la meta non è poi così vicina, per cui prendo un taxy-be, un furgone di trasporto collettivo. L’obiettivo di questa prima azione è ottenere il “certificat d’inscription au registre de recensement des étrangers”.
In tempo record, sono alla polizia. Il mio ego si compiace soddisfatto. Troppo presto – évidemment - visto che, per ottenere il certificato, mi mancano: una domanda indirizzata a Monsieur il Prefetto, una fotocopia autenticata del passaporto e del visto, un certificato di residenza con foto autenticata dal Presidente del Fokontany, una foto d’identità e una lettera dell’università! Ricopio a mano la lista, ringrazio profusamente, esco di corsa e riaggiusto il mio obiettivo: devo trovare il presidente del Fokontany, ovvero il “sindaco” del mio quartiere di residenza. Monto su un taxy be in direzione di Analakely, la zona del mercato, dove sono alloggiata. La sede del fokontany è in cima allo scalone (Antananarivo significa “la città delle mille colline”), a soli 160 gradini di distanza. Mi arrampico di corsa, per timore di trovare chiuso.
10:50: All’ingresso, ancora tutta trafelata, incrocio lo sguardo di una giovane donna che sta timbrando delle ricevute. Le spiego di cosa ho bisogno e le mostro l’attestazione di alloggio rilasciata dal mio albergo. Si allontana. Di li a poco torna a dirmi che devo passare il giorno dopo: devono inoltrare la richiesta al distretto di polizia. Insisto gentilmente perché si prenda cura di me più o meno immediatamente. Il suo buon cuore si decide per un si. Dopo altri venti minuti, il presidente del Fokontany in persona mi chiede di lasciargli il mio passaporto: deve andare dalla presidentessa del distretto, che, UNICA E SOLA, può dare il benestare all’emissione del certificato. Per timore di perdere un’occasione (e il mio passaporto), mi offro di accompagnarlo. Camminiamo per un quarto d’ora, saliamo quattro piani, facciamo dieci minuti di anticamera e finalmente ci riceve, LEI! Esamina attenta e competente l’incartamento. Scuote la testa con disapprovazione: “Nooooo! Il y a un problème!!!”: l’hotel dichiara semplicemente di alloggiarmi, mica di farsi carico delle mie spese! Mi ci serve la certificazione di “prise en charge financière”! Io un po’ me l’aspettavo, ma, per puro desiderio masochista, sto cercando di seguire una logica tutta mia (errore!). Ovvero: è chiaro che io sono “invitata” dall’università di Antananarivo, ma loro né mi pagano né mi danno da dormire. Per cui se mi chiedono un certificato di alloggio per ottenere la residenza, da chi vuoi che me lo faccia fare, se non dall’hotel? Le spiego la mia versione delle cose e lei, non so per convinzione o rassegnazione, si ammorbidisce. Incredibile ma vero, ci dà la sua benedizione (non vedo perché non avrebbe potuto farlo per telefono). Il presidente e io ripartiamo felici, , fumandoci una sigaretta sulle scale del distretto di polizia.
12:00: Stringo tra le mani il certificato di residenza. C’est le bonheur!!
14:00: Mairie du Ier Arrondissement. Il pomeriggio è da dedicare alla certificazione e legalizzazione di tutte le fotocopie in mio possesso: passaporto, visto, carta studente, dichiarazione sull’onore che non ho mai ucciso nessuno etc. etc. La fila non toglie il fiato e gli impiegati sono gentili e disponibili. Ce ne sono almeno 10, direi, dietro a rozzi tavoli di legno. Il loro unico compito è mettere timbri, trascrivere nomi, farti firmare su grossi registri, prima con la penna nera e poi con la penna rossa.
15:45: Ho tutto ciò di cui ho bisogno: un paio di timbri rossi corredati di firme e date su ciascuna delle 7 fotocopie necessarie alla difficoltosa procedura.

Martedì 30 giugno
9:00: Torno all’attacco alla prefettura di polizia. Sono li già all’apertura. Nessun postulante in vista: buon segno? Il poliziotto alla porta mi fa accomodare in sala d’attesa.
9:30: Comincio a chiedermi perché sto aspettando, visto che non c’è nessuno. E difatti, il problema è proprio quello: il responsabile non è ancora arrivato. D’habitude arriva verso le nove e venti (che sono già passate), o le dieci. Vado a prendere un caffè. Al mio ritorno, l’addetto si manifesta, è il caso di dire, in tutta la sua potenza. Presento orgogliosa i documenti. Lei (è una lei) li esamina con cura, per poi dirmi che “Nooooo! Il y a un problème!!!”: manca la certificazione formale del mio vincolo con l’Università di Antananarivo. Ma io ho un asso nella manica: sfodero una lettera del mio direttore di tesi, in cui, oui oui oui!, si menziona la mia affiliazione con l’istituzione malagasy. Primo ostacolo superato.
L’imprevisto è però in agguato: il dossier va corredato della solita foto tessera. Io ne ho sei, ma non le ho ancora ritagliate. Le tiro fuori e mi guardo intorno cercando un paio di forbici. La funzionaria scuote la testa: le forbici non ce le ha. Posso provare a cercarle negli uffici di fianco. Tuttavia, in su, in giù, a sud e a nord, in questa prefettura di polizia, di forbici proprio non ce ne sono. Nemmeno di coltelli. “E come fate – dico - quando dovete tagliare qualcosa?” “Madame, qui non abbiamo bisogno di tagliare niente!”, risponde stizzita l’impiegata. “ E qualora proprio ne avessimo bisogno, ci serviamo del righello”- aggiunge. “Allora proverò col righello” - rispondo, sottomessa alla sua logica. Proprio in quel momento, appare un simpatico tuttofare, che mi porge graziosamente un paio di forbicine da manicure. Ritaglio, radiosa, la foto. Pago i 10.000 Ar (circa 4 € ) di bollo. La funzionaria mi scrive una ricevuta: “Può passare tra due giorni, nel pomeriggio”. “Ma come, tra due giorni? “Eh sì! – fa lei- il prefetto non c’è. Forse tornerà domani, ma non si sa a che ora. Se proprio ha fretta, provi comunque a fare un giro nel pomeriggio. Buona fortuna”. La ringrazio profusamente. L’indomani, alle 15, il certificato è pronto.

Mercoledì 1 luglio
Ottengo la lettera d’invito ufficiale, logo in verde e due firmette, con il timbro dell’Università di Antananarivo.

Giovedì 2 luglio
8:05: Sono pronta ad andare al Ministero dell’Interno con il mio dossier. “Tout dossier incomplet est irrecevable”, ammoniva perentorio il cartello all’ingresso. L’ufficio chiude alle 11. Mi ritrovo però sul taxy-be sbagliato, a vagare per una Tana grigia e piovigginosa ma completamente nuova, in cui scopro quartieri residenziali con vista panoramica, ville dai giardini rigogliosi, licei di prestigio, stradine lastricate e linde chiesette di mattoni rossi. Il mercato di Analakely, brulicante di odori e miserie umane, è lontano, lì in basso. Del lago, quello di Anosy, quello a forma di cuore, nemmeno l’ombra. Tuttavia, la mia mente è serena e rilassata, prende gusto a quella flânerie su quattro ruote. Sprofondo nello spirito del “mora mora”, mi lascio andare agli eventi, faccio scorrere il tempo senza muovere un muscolo, in perfetto silenzio, senza chiedermi il quando, né il perché.
10:00: Il mio spirito illuminista mi suggerisce che se continuo in quel vagabondaggio corro il rischio di non disfarmi del prezioso fardello cartaceo. Balzo giù dal taxy be e negozio una corsa in taxy.
Ma quando non è una scelta, il “mora mora” è un’imposizione. Il taxy rimane imprigionato nei famosi e inevitabili “embouteillages” di Tana: ingorghi giganteschi e ineludibili. Il tempo scorre inesorabile. Io, continuo ad avere fede e un sorriso idiota sulla faccia.
10:50: Sono davanti al Ministero dell’Interno. Mi fiondo all’ufficio dei desideri. L’impiegata, la stessa di lunedì, oggi più espressiva forse perché sta per chiudere, mi riceve. Comincia ad esaminare il mio dossier. Sembra che ci sia tutto, ma… “Nooooo! Il y a un problème!!!! Madame, la demande au Ministre! » - scuote la testa con disapprovazione. Ma io ce l’ho, la Demande!! “La forme, Madame! La forme n’est pas bonne!!” - “Ma perché è scritta a mano?” - “No no, non è quello il problema. È la forma, Madame”. Devo scrivere – e intanto, con fare leggiadro, tira fuori un esempio scritto da qualcuno che se ne intende – COSì!!! Ed è allora che mi accorgo di aver dimenticato di introdurre tutte le formule erudite, tipo: “Caro signor Ministro, Ho l’onore di rivolgermi alla sua Altissima Benevolenza per chiedere bla bla bla…Spero di poter contare sulla sua generosa considerazione bla bla bla…Le faccio pervenire i miei più rispettosi e distinti saluti etc. etc. etc.”. Copio tutto velocemente, nella mia migliore grafia. Il tempo è tiranno. La porta si chiude, ma intanto la signora sta già vergando su un foglietto l’appuntamento per il ritiro del visto, o meglio, del talloncino per il versamento che dovrò fare. Ce l’ho fatta? “Quando scade il suo visto d’ingresso?” “Il 25 luglio, perché?” “Allora può passare fra 3 settimane” “Ma io devo partire in missione in provincia” “Beh…allora passi martedì!” “E perché non lunedì?” “Perché ho già molti dossier da esaminare”. Incredibile ma vero, sono estremamente riconoscente all’altissima benevolenza di questa creatura. Magari martedì mi dirà che il mio dossier è rifiutato. La prego, Madame, non mi dia brutte notizie. Voglio credere che il peggio è passato.
È passato?

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