Questo filo di pensieri é momentaneamente in stand-by da riflessione etnografica!!
Il tempo scorre veloce, il 25 gennaio ritorno al vecchio continente, alla mia vita, ai miei soliti percorsi, che eppure mi sono mancati e mi mancano tanto, in questa realtà a volte cosi estraniante, a volte cosi familiare.
Rispetto alle vere ragioni per cui sono qui, mi si impone di fare un punto della situazione.
"Dobbiamo trovare strumenti di misura di cui il mondo non conosce la scala, disegnare da soli i nostri schemi, ricevere una reazione, stabilire collegamenti, ridurre l'errore, cercare di imparare la funzione reale...puntare su quale incalcolabile trama?" (Thomas Pynchon - Arcobaleno della gravità)
In parole non mie, é questo il compito che mi spetta.
Eppure tornero' a riallacciare questa trama...ho solo bisogno di un po' di tempo per pensarci su...
domenica 29 novembre 2009
mercoledì 4 novembre 2009
Quale Madagascar?
Spesso le cose, quando le guardi da vicino, ti rivelano particolari inattesi. Come quelle superfici che sembrano bianche e compatte e invece, se ti soffermi a studiarle con lo sguardo, nascondono solchi, anfratti e crepe, interstizi nei quali pulsa tutta una vita, una trama di microstorie che all’inizio non avevi notato.
Madagascar è un nome evocativo, il nome di un’immagine da cartolina, con lunghe spiagge bianche e mare luminoso, foreste dense e paradiso degli animali… Eppure, appena ci entri dentro, questa immagine ti rivela che, nei suoi chiaroscuri, si annidano storie di mille e una contraddizione. E ti racconta non solo di lussureggiante vegetazione, ma anche di altipiani senza alberi; non solo di sabbia fine, ma anche di scarsezza d’acqua potabile; non solo di avventurose discese in piroga, ma anche di “strade impossibili da percorrere in cui le distanze si misurano in ore e non in chilometri”; non solo di romantiche capanne in riva all’oceano, ma anche di case di terra dalle mura così esili che sembrano disegnate dalla matita di un bambino. Ti racconta di una grande isola con l’atmosfera di un continente, ti racconta sì di un paradiso, ma anche dell’inferno.
Lo chiamano Paese in via di Sviluppo, ma verso quale sviluppo si muove, questo Madagascar?
Quando ero piccola li chiamavamo Paesi del Terzo Mondo, una definizione che, a posteriori, mi sembra avere almeno un pregio: quello di evocare un’alternativa tra modi di vita possibili, tra maniere diverse di risalire la china. Opzione numero uno, numero due e numero tre, e benché implicitamente stiamo dicendo che una è più valida delle altre, anche quelle meno desiderabili conservano una loro ragion d’essere. Paese in via di Sviluppo, invece, sembra avere un sapore escatologico e universale: come se tutti si stessero muovendo, in maniera lineare e univoca, verso un’unica grande meta, che noi abbiamo invece già raggiunto: lo Sviluppo, quello con la esse maiuscola. Che poi che cos’è? Educazione, salute, acqua potabile e elettricità per tutti? Strade, tecnologia, dinamismo commerciale? Abbondanza, scelte, consumi? Come dice l’antropologo Arturo Escobar, “tutti ripetono la stessa verità di base, vale a dire che lo sviluppo consiste nell’aprire la strada alla realizzazione di quelle condizioni che caratterizzano le società ricche: industrializzazione, modernizzazione agricola e urbanizzazione”. Se lo interroghiamo, il concetto di Sviluppo, sembra parlarci soprattutto di noi, del nostro Occidente, del quale gli altri Paesi dovrebbero sbrigarsi a diventare una copia, così finalmente avremo nuovi mercati in cui vendere e altri specchi che, rinviandoci la nostra panciuta immagine riflessa, ci confermeranno che abbiamo fatto la cosa giusta, diffondendo benessere e civilizzazione nel mondo intero.
Ecco dunque: ho messo il naso in questa immagine patinata e ho cominciato a vederne gli angoli di colore sbiadito, qualche chiazza di nero e i conti che non tornano per niente, per cui mi viene da riflettere sul potere creatore delle definizioni, sui limiti e le ambiguità dei concetti.
Che cosa diciamo, quando diciamo Paese in via di Sviluppo? Innanzitutto, una realtà che definiamo per negazione, un’entità sospesa indefinitamente in un “non ancora” che, forse, sottomette il tempo ai criteri di una presunta logica universale che, dal canto nostro, diamo abbastanza per scontata, senza chiederci mai se ci sono altre logiche possibili. Non è forse vero che, quando diamo un nome alle cose, esercitiamo su di esse una forma di potere, molto spesso pervaso di ideologia, in virtù del quale, per esigenze di chiarezza, le oggettiviamo, determinando il modo in cui esse esistono? È sempre Escobar a dire, “lo sviluppo è stato il meccanismo primario attraverso cui il Terzo Mondo è stato immaginato e ha immaginato se stesso, marginalizzando o precludendo in questo modo altri modi di vedere e di agire”. E questo ha fatto si che quello che ora incontriamo, quando ci muoviamo nei paesi in via di Sviluppo, è una realtà definita per mancanza, per sottrazione, per negazione rispetto al confronto con la nostra. Oggetto, a fasi alterne, di commiserazione, rifiuto e assistenzialismo.
Ma voglio sdrammatizzare! L’antropologia da sola già mi da abbastanza gatte da pelare, figurati tu condirla con delle complicate teorie sociali! Eppure, se mi trovo a riflettere su questa cosa, è perché, se c’è un vantaggio nel fatto di essere in apprendistato antropologico, è quello di trovarsi a decostruire i propri giudizi di valore. Provando quindi a fare tabula rasa, ho incontrato nel mio bagaglio un pezzo dell’immaginario a cui fa riferimento Escobar. E parlando con altri vazaha che ho incontrato, mi sono resa che anche loro ce l’avevano, e questo gli impediva di vedere il Madagascar per quello che è veramente. Il nostro immaginario ci impedisce di venire alla resa dei conti con la complessità del reale, con le contraddizioni di un inferno che si trova in paradiso!
La ragione per cui ho detto tutto questo è che a volte penso che il mormorio dell’Occidente ci ha storicamente impedito di ascoltare cosa gli Altri avessero da dire, su che cosa sono e sul futuro che desiderano. L’idea di Sviluppo che questi paesi rincorrono è un’invenzione dell’Occidente. Per questo essi dipendono da noi per realizzarla. Forse, se le liberassimo da questa immagine per negazione che hanno di sé, queste società ritroverebbero la propria identità e comincerebbero a sognare il proprio futuro. Lo so, inventare nuove teorie non basta a cambiare la realtà, ma ci fa fare il primo passo per ripensarla. Vince una volta ha detto: “la vera povertà è l’impossibilità di avere dei sogni”. E forse, aggiungo io, anche trovarsi a sognare i sogni degli altri.
Come diceva Luis Mallart: “¿Por qué no nos callamos un momento, dejamos de proponer temas de conversación, y escuchamos lo que ellos libremente tienen que decir sobre África –si es que les apetece hablar de África-“.
Madagascar è un nome evocativo, il nome di un’immagine da cartolina, con lunghe spiagge bianche e mare luminoso, foreste dense e paradiso degli animali… Eppure, appena ci entri dentro, questa immagine ti rivela che, nei suoi chiaroscuri, si annidano storie di mille e una contraddizione. E ti racconta non solo di lussureggiante vegetazione, ma anche di altipiani senza alberi; non solo di sabbia fine, ma anche di scarsezza d’acqua potabile; non solo di avventurose discese in piroga, ma anche di “strade impossibili da percorrere in cui le distanze si misurano in ore e non in chilometri”; non solo di romantiche capanne in riva all’oceano, ma anche di case di terra dalle mura così esili che sembrano disegnate dalla matita di un bambino. Ti racconta di una grande isola con l’atmosfera di un continente, ti racconta sì di un paradiso, ma anche dell’inferno.
Lo chiamano Paese in via di Sviluppo, ma verso quale sviluppo si muove, questo Madagascar?
Quando ero piccola li chiamavamo Paesi del Terzo Mondo, una definizione che, a posteriori, mi sembra avere almeno un pregio: quello di evocare un’alternativa tra modi di vita possibili, tra maniere diverse di risalire la china. Opzione numero uno, numero due e numero tre, e benché implicitamente stiamo dicendo che una è più valida delle altre, anche quelle meno desiderabili conservano una loro ragion d’essere. Paese in via di Sviluppo, invece, sembra avere un sapore escatologico e universale: come se tutti si stessero muovendo, in maniera lineare e univoca, verso un’unica grande meta, che noi abbiamo invece già raggiunto: lo Sviluppo, quello con la esse maiuscola. Che poi che cos’è? Educazione, salute, acqua potabile e elettricità per tutti? Strade, tecnologia, dinamismo commerciale? Abbondanza, scelte, consumi? Come dice l’antropologo Arturo Escobar, “tutti ripetono la stessa verità di base, vale a dire che lo sviluppo consiste nell’aprire la strada alla realizzazione di quelle condizioni che caratterizzano le società ricche: industrializzazione, modernizzazione agricola e urbanizzazione”. Se lo interroghiamo, il concetto di Sviluppo, sembra parlarci soprattutto di noi, del nostro Occidente, del quale gli altri Paesi dovrebbero sbrigarsi a diventare una copia, così finalmente avremo nuovi mercati in cui vendere e altri specchi che, rinviandoci la nostra panciuta immagine riflessa, ci confermeranno che abbiamo fatto la cosa giusta, diffondendo benessere e civilizzazione nel mondo intero.
Ecco dunque: ho messo il naso in questa immagine patinata e ho cominciato a vederne gli angoli di colore sbiadito, qualche chiazza di nero e i conti che non tornano per niente, per cui mi viene da riflettere sul potere creatore delle definizioni, sui limiti e le ambiguità dei concetti.
Che cosa diciamo, quando diciamo Paese in via di Sviluppo? Innanzitutto, una realtà che definiamo per negazione, un’entità sospesa indefinitamente in un “non ancora” che, forse, sottomette il tempo ai criteri di una presunta logica universale che, dal canto nostro, diamo abbastanza per scontata, senza chiederci mai se ci sono altre logiche possibili. Non è forse vero che, quando diamo un nome alle cose, esercitiamo su di esse una forma di potere, molto spesso pervaso di ideologia, in virtù del quale, per esigenze di chiarezza, le oggettiviamo, determinando il modo in cui esse esistono? È sempre Escobar a dire, “lo sviluppo è stato il meccanismo primario attraverso cui il Terzo Mondo è stato immaginato e ha immaginato se stesso, marginalizzando o precludendo in questo modo altri modi di vedere e di agire”. E questo ha fatto si che quello che ora incontriamo, quando ci muoviamo nei paesi in via di Sviluppo, è una realtà definita per mancanza, per sottrazione, per negazione rispetto al confronto con la nostra. Oggetto, a fasi alterne, di commiserazione, rifiuto e assistenzialismo.
Ma voglio sdrammatizzare! L’antropologia da sola già mi da abbastanza gatte da pelare, figurati tu condirla con delle complicate teorie sociali! Eppure, se mi trovo a riflettere su questa cosa, è perché, se c’è un vantaggio nel fatto di essere in apprendistato antropologico, è quello di trovarsi a decostruire i propri giudizi di valore. Provando quindi a fare tabula rasa, ho incontrato nel mio bagaglio un pezzo dell’immaginario a cui fa riferimento Escobar. E parlando con altri vazaha che ho incontrato, mi sono resa che anche loro ce l’avevano, e questo gli impediva di vedere il Madagascar per quello che è veramente. Il nostro immaginario ci impedisce di venire alla resa dei conti con la complessità del reale, con le contraddizioni di un inferno che si trova in paradiso!
La ragione per cui ho detto tutto questo è che a volte penso che il mormorio dell’Occidente ci ha storicamente impedito di ascoltare cosa gli Altri avessero da dire, su che cosa sono e sul futuro che desiderano. L’idea di Sviluppo che questi paesi rincorrono è un’invenzione dell’Occidente. Per questo essi dipendono da noi per realizzarla. Forse, se le liberassimo da questa immagine per negazione che hanno di sé, queste società ritroverebbero la propria identità e comincerebbero a sognare il proprio futuro. Lo so, inventare nuove teorie non basta a cambiare la realtà, ma ci fa fare il primo passo per ripensarla. Vince una volta ha detto: “la vera povertà è l’impossibilità di avere dei sogni”. E forse, aggiungo io, anche trovarsi a sognare i sogni degli altri.
Come diceva Luis Mallart: “¿Por qué no nos callamos un momento, dejamos de proponer temas de conversación, y escuchamos lo que ellos libremente tienen que decir sobre África –si es que les apetece hablar de África-“.
lunedì 19 ottobre 2009
“Udite udite!”: un risveglio con il banditore
Il mattino seguente piovigginava. Saremmo dovuti ripartire, ma considerato il tempo, la difficoltà del percorso e la simpatia di Rakoto e tutto il clan, abbiamo deciso di fermarci ancora una notte. Era ancora mattina presto quando l’ho sentito per la prima volta: era proprio un banditore! Si, proprio lui, quello che nelle favole fa sempre il suo ingresso con un sonoro: “Udite! Udite!!!”. Risulta che a Sakaivo, come nei villaggi medievali, le notizie di interesse pubblico si diffondono così, con questo personaggio che sale sulla collina al centro del paese e si mette ad urlare, in modo che i suoi strilli raggiungano tutti gli abitanti. Tendo l’orecchio per cercare di capire che cosa stesse dicendo. E riesco a distinguere le parole: “Vazaha”…”Mahay teny gasy”…Ma… sta parlando di noi! E che cosa sarà mai? Vado da Rakoto a chiedere lumi. Lui, che mi accoglie col suo solito sorriso, mi spiega che quella mattina uno dei suoi nipoti più giovani ha perso dei soldi (15.000 Ar , una bella sommetta) nella piazza centrale del paese. Mi dice che qualcuno li ha trovati, una ragazzina, ma che non si sa chi è, né lei sa a chi restituirli. Allora al banditore è stato affidato il compito di persuaderla. E come spauracchio - e qui entriamo in gioco noi! - le è stato intimato a gran voce che è meglio che si risolva a farlo in fretta, perché in paese ci sono dei vazaha, che parlano pure malgascio, e possiedono uno strumento tecnologico (una macchina della verità??) in grado di individuare bugiardi e malfattori. Rakoto non fa in tempo a finire di raccontarmi la storia, che la madre della bambina entra per restituire i soldi.
Eccoci dunque: abbiamo partecipato indirettamente al compimento di una buona azione! E abbiamo pure toccato con mano che la minaccia dell’uomo bianco (come quella dell’uomo nero da noi!) continua a funzionare, ahinoi!
Eccoci dunque: abbiamo partecipato indirettamente al compimento di una buona azione! E abbiamo pure toccato con mano che la minaccia dell’uomo bianco (come quella dell’uomo nero da noi!) continua a funzionare, ahinoi!
Dentro una tranomena
Tra i vari villaggi zafimaniry che abbiamo visitato, un posto speciale merita Sakaivo Avaratra, un agglomerato di una cinquantina di casette di legno ai piedi del cocuzzolo di Laibory, ad una altezza di 1450 m. Il villaggio è presieduto da un collegio di anziani, un membro dei quali, Rakoto Emanuel, ci ha offerto ospitalità durante il nostro soggiorno. Rakoto ha 73 anni ed è un ospite eccezionale, uno di quelli che il futuro ad immaginarlo ci ha già provato: pur non parlando una parola di francese, ha costruito una casa per accogliere i turisti proprio accanto alla sua; ha insistito perché le guide insegnassero a suo nipote Desy a cucinare all’europea, così, quando ci sono visite, anche lui riesce a rimediare un po’ di soldi; ha costruito un rudimentale gabinetto e un vano doccia: piccoli confort di base che dopo una giornata di cammino si fanno apprezzare. L’atmosfera che si crea è talmente semplice e familiare che il vazaha riesce a dimenticare per un attimo il suo pallore e si rilassa per apprezzare il calore di un’ospitalità tradizionale. A fare il resto ci pensa il largo sorriso di Rakoto e due o tre goccetti di toaka, il rum locale: l’incantesimo è fatto.
La casa di Rakoto, come quasi tutte le case di Sakaivo, è una casa tradizionale zafimaniry. La tranomena, così è che si chiama, segue una precisa disposizione geografica, che rievoca, con alcuni tratti comuni anche ad altre case tradizionali degli altipiani, le origini e le credenze di un popolo i cui antenati arrivarono dalla Malesia a bordo delle piroghe. Tutte le case del villaggio sono allineate lungo l’asse nord-sud, con l’apertura rivolta ad ovest per proteggerla dagli alisei, i venti carichi di pioggia che soffiano da est. L’angolo sud-est, che in questa cosmologia metaforica e miniaturizzata rappresenta l’Oceano Indiano, è quello in cui normalmente si conserva l’acqua, ossia il grosso bidone con la riserva giornaliera che ogni mattina viene riempito alla fonte. L’angolo nord-est invece è quello ben augurante, dedicato alla memoria degli antenati provenienti dall’Asia (che si trova appunto a nord-est del Madagascar), e al “masoandro”, che tradotto letteralmente diventa “occhio del giorno”: è così che i malgasci chiamano il sole. In quest’angolo, prima di dare inizio ai brindisi e ai discorsi di benvenuto per i nuovi arrivati, si rivolge un breve ringraziamento agli antenati, offrendo loro qualche goccia di rum.
Anche la casa di Rakoto rispetta questa disposizione. Nella zona sud c’è il focolare, costituito da tre pietre, che rappresentano padre, madre e figli che reggono la pentola con il cibo che li nutre. La cappa di aereazione però non c’è, cosicché l’ambiente è costantemente invaso dal fumo: l’unico modo per far smettere di lacrimare gli occhi è accovacciarsi su bassi sgabelli, rimanendo al di sotto della spessa nube tossica. La fuliggine che annerisce tutto offre però un vantaggio: impregna le pareti e impermeabilizza l’interno della casa, rendendola così più resistente agli agenti atmosferici. Con questo piccolo trucco una tranomena, pur essendo fatta interamente di legno, riesce a resistere fino a 300 anni! Nella stanza non c’è altro arredo che le nattes, i tappeti di rafia su cui gli zafimaniry, e i malgasci di campagna in generale, mangiano, conversano, e spesso dormono anche. Un nutrito corredo di nattes e qualche sgabello è difatti la prima dote per una ragazza da marito.
Dal canto nostro, devo ammettere che abbiamo avuto una certa fortuna, perché siamo capitati a casa di Rakoto durante una grossa riunione di famiglia in occasione della seconda semina della risaia. Secondo una tradizione che purtroppo va facendosi sempre più rara, in Madagascar per i lavori agricoli più importanti si fa appello alla solidarietà di tutto il clan, che si riunisce per dare una mano, senza aspettarsi altro in cambio che condivisione del pasto, ringraziamenti sentiti e brindisi di rito. Queste riunioni, oltre all’evidente fine pratico, sono estremamente importanti per cementare i vincoli parentali, giacché costituiscono momenti di incontro e conoscenza tra tutti i rami della estesissima famiglia, momenti quindi per discutere di unioni, di nascite e di morti.
Quando siamo arrivati a casa di Rakoto, nella tarda mattinata di venerdì 2 ottobre, tutto il clan era quindi al gran completo, e tra uomini, donne e bambini, saremo stati una cinquantina. Nell’ala sud della casa, riservata alle donne, bolliva il grosso pentolone colmo di mais destinato a sfamare gli operai, che in quel momento erano al lavoro nella risaia. Rakoto ci ha accolto invece nella parte nord, quella normalmente riservata agli uomini. Dopo un brindisi all’europea con una rinfrancante birra THB, il pomeriggio è trascorso tra piacevoli chiacchiere e una visita alla risaia, per dare un’occhiata allo svolgimento dei lavori. A ora di cena, la casa si è affollata di gente. Non si è fatto in tempo a ingollare l’ultima cucchiaiata di riso che già cominciavano brindisi e discorsi: un sorso al capofamiglia – Rakoto - e uno all’ospite! Un cicchetto al capoclan – Rakoto - e uno anche al vazaha! Un brindisi per l’anziano del villaggio - sempre Rakoto! - e uno a suo cugino!!! E così via trincando, finché la sbronza ha ucciso la conversazione e sono cominciati i canti e i controcanti, che a gole spiegate sono andati avanti per un bel pezzo della notte. In tutto ciò, si beveva a turno e tutti dallo stesso bicchiere. Meno male - pensava il mio demone igienista - che con i suoi 80° a uccidere i germi ci pensa l’alcol!
Anche la presenza mia e di Vince, la cui parlantina malgascia si scioglieva mano a mano che aumentava il livello alcolico, costituiva tutto sommato un piccolo evento. Ma in fondo, il vero protagonista della serata era l’aiuto reciproco, quella solidarietà familiare così delicatamente raffigurata in uno dei motivi scultorei più cari agli Zafimaniry. Quello il cui motto è: l’unione fa la forza.
La casa di Rakoto, come quasi tutte le case di Sakaivo, è una casa tradizionale zafimaniry. La tranomena, così è che si chiama, segue una precisa disposizione geografica, che rievoca, con alcuni tratti comuni anche ad altre case tradizionali degli altipiani, le origini e le credenze di un popolo i cui antenati arrivarono dalla Malesia a bordo delle piroghe. Tutte le case del villaggio sono allineate lungo l’asse nord-sud, con l’apertura rivolta ad ovest per proteggerla dagli alisei, i venti carichi di pioggia che soffiano da est. L’angolo sud-est, che in questa cosmologia metaforica e miniaturizzata rappresenta l’Oceano Indiano, è quello in cui normalmente si conserva l’acqua, ossia il grosso bidone con la riserva giornaliera che ogni mattina viene riempito alla fonte. L’angolo nord-est invece è quello ben augurante, dedicato alla memoria degli antenati provenienti dall’Asia (che si trova appunto a nord-est del Madagascar), e al “masoandro”, che tradotto letteralmente diventa “occhio del giorno”: è così che i malgasci chiamano il sole. In quest’angolo, prima di dare inizio ai brindisi e ai discorsi di benvenuto per i nuovi arrivati, si rivolge un breve ringraziamento agli antenati, offrendo loro qualche goccia di rum.
Anche la casa di Rakoto rispetta questa disposizione. Nella zona sud c’è il focolare, costituito da tre pietre, che rappresentano padre, madre e figli che reggono la pentola con il cibo che li nutre. La cappa di aereazione però non c’è, cosicché l’ambiente è costantemente invaso dal fumo: l’unico modo per far smettere di lacrimare gli occhi è accovacciarsi su bassi sgabelli, rimanendo al di sotto della spessa nube tossica. La fuliggine che annerisce tutto offre però un vantaggio: impregna le pareti e impermeabilizza l’interno della casa, rendendola così più resistente agli agenti atmosferici. Con questo piccolo trucco una tranomena, pur essendo fatta interamente di legno, riesce a resistere fino a 300 anni! Nella stanza non c’è altro arredo che le nattes, i tappeti di rafia su cui gli zafimaniry, e i malgasci di campagna in generale, mangiano, conversano, e spesso dormono anche. Un nutrito corredo di nattes e qualche sgabello è difatti la prima dote per una ragazza da marito.
Dal canto nostro, devo ammettere che abbiamo avuto una certa fortuna, perché siamo capitati a casa di Rakoto durante una grossa riunione di famiglia in occasione della seconda semina della risaia. Secondo una tradizione che purtroppo va facendosi sempre più rara, in Madagascar per i lavori agricoli più importanti si fa appello alla solidarietà di tutto il clan, che si riunisce per dare una mano, senza aspettarsi altro in cambio che condivisione del pasto, ringraziamenti sentiti e brindisi di rito. Queste riunioni, oltre all’evidente fine pratico, sono estremamente importanti per cementare i vincoli parentali, giacché costituiscono momenti di incontro e conoscenza tra tutti i rami della estesissima famiglia, momenti quindi per discutere di unioni, di nascite e di morti.
Quando siamo arrivati a casa di Rakoto, nella tarda mattinata di venerdì 2 ottobre, tutto il clan era quindi al gran completo, e tra uomini, donne e bambini, saremo stati una cinquantina. Nell’ala sud della casa, riservata alle donne, bolliva il grosso pentolone colmo di mais destinato a sfamare gli operai, che in quel momento erano al lavoro nella risaia. Rakoto ci ha accolto invece nella parte nord, quella normalmente riservata agli uomini. Dopo un brindisi all’europea con una rinfrancante birra THB, il pomeriggio è trascorso tra piacevoli chiacchiere e una visita alla risaia, per dare un’occhiata allo svolgimento dei lavori. A ora di cena, la casa si è affollata di gente. Non si è fatto in tempo a ingollare l’ultima cucchiaiata di riso che già cominciavano brindisi e discorsi: un sorso al capofamiglia – Rakoto - e uno all’ospite! Un cicchetto al capoclan – Rakoto - e uno anche al vazaha! Un brindisi per l’anziano del villaggio - sempre Rakoto! - e uno a suo cugino!!! E così via trincando, finché la sbronza ha ucciso la conversazione e sono cominciati i canti e i controcanti, che a gole spiegate sono andati avanti per un bel pezzo della notte. In tutto ciò, si beveva a turno e tutti dallo stesso bicchiere. Meno male - pensava il mio demone igienista - che con i suoi 80° a uccidere i germi ci pensa l’alcol!
Anche la presenza mia e di Vince, la cui parlantina malgascia si scioglieva mano a mano che aumentava il livello alcolico, costituiva tutto sommato un piccolo evento. Ma in fondo, il vero protagonista della serata era l’aiuto reciproco, quella solidarietà familiare così delicatamente raffigurata in uno dei motivi scultorei più cari agli Zafimaniry. Quello il cui motto è: l’unione fa la forza.
Qualche nota sugli Zafimaniry
Nel cuore degli altipiani del Madagascar, a est della cittadina di Ambositra, vivono gli Zafimaniry. Il loro mito fondante vuole che, due secoli or sono o giù di lì, questo gruppo di origini Betsileo si rifugiasse tra le montagne per sfuggire alla deforestazione incipiente e alla coscrizione obbligatoria imposta dai conquistatori Merina.
Che sia stato per desiderio di boschi intatti oppure di libertà, questa gente ha vissuto praticamente isolata per diverso tempo, su cime di difficile accesso e perennemente avvolte di bruma, praticando una agricoltura di sussistenza a base di mais, patate dolci, taro e manioca, ottenuta col sistema del “taglia e brucia”: tagliano alberi e arbusti, li lasciano seccare al sole, poi appiccano un fuoco controllato col quale liberano la parcella che diventerà terra di coltura. Dopo il raccolto, prima di ritornare sullo stesso appezzamento, lasciano riposare per un paio d’anni. Questa tecnica, che risparmia la fatica di dissodare e arare, ha però come conseguenza che, dopo due o tre rotazioni, la terra, esangue, non produce altro che felci e sterpaglia. Attualmente questo gruppo conta circa 50.000 persone sparsi in circa un centinaio di villaggi che, come il resto del Madagascar, sono in costante crescita demografica. Se è vero che siano fuggiti sulle montagne per “desiderio” della foresta (Zafimaniry significa, infatti, “discendenti che desiderano”), è indubbio che la foresta l’hanno amata fino ad ammazzarla: la distesa boscosa di un tempo è oggi ridotta ad un corridoio che si restringe ad ogni giorno che passa. “Maty ny ala” - ti dicono - “la foresta è morta” e sembrano alludere ad una catastrofe inevitabile con la quale loro non hanno niente a che vedere. Ma la foresta, da sola, non muore: sono gli Zafimaniry che se la stanno, quasi letteralmente, mangiando.
Tuttavia, non è per rimproverarli che sono andata a conoscerli!
Grazie alla loro tradizionale simbiosi con il bosco, gli Zafimaniry hanno infatti sviluppato una grandissima abilità nella lavorazione del legno. Quasi tutto, nel loro mondo, viene dalla foresta: le case, interamente di palissandro, sono autentici capolavori di incastro, costruite senza nemmeno un chiodo, completamente smontabili e con porte e finestre finemente scolpite; gli sgabelli su cui siedono sono ricavati da un unico blocco di legno; i grossi contenitori con i quali un tempo, quando la foresta era ancora lussureggiante e generosa, andavano a raccogliere il miele selvatico, sono tronchi scavati; i sepolcri famigliari sono pesanti sarcofagi, i più antichi dei quali assemblati con due soli blocchi di un unico tronco. Nella loro vita quotidiana, gli Zafimaniry riconoscono e utilizzano circa 23 tipi di legni diversi, ognuno con una sua precisa funzione. Questa incredibile maestria è stata dichiarata, nel 2003, Patrimonio Intangibile dell’Umanità dall’Unesco. Ma mentre la loro arte diventa Patrimonio Universale, la risorsa che permette loro di esserne maestri scompare lentamente (ma nemmeno troppo) e senza nessun clamore, distrutta proprio da coloro che dovrebbero esserne i custodi.
Ciononostante, il paese degli Zafimaniry continua ad offrire una panorama di straordinaria bellezza e ad essere meta di numerosi turisti, che si avventurano in trekking di uno o più giorni, per visitare quelle piccole meraviglie di palissandro nascoste in mezzo alle montagne.
Così, eccomi là, a osservare interazioni e cambiamenti derivanti dal contatto con lo straniero, in un mondo vegetale in cui la richiesta di regalare bottiglie di plastica vuote e la presenza di qualche telefonino (che però funziona soltanto se ti arrampichi in cima alla montagna), rappresentano il primo, ma non certo l’ultimo, segno del peggio della globalizzazione che avanza.
Ho trascorso nel paese zafimaniry circa tre settimane, durante le quali ho incontrato e discusso con i notabili del villaggio e con tutti coloro che, in una forma o l’altra, possono essere implicati direttamente o fungere da osservatori privilegiati nell’incontro turistico. Sono state tre settimane fisicamente impegnative perché, per spostarmi da un villaggio all’altro, ho dovuto fare del trekking - il diversivo naturalistico del turista – la condizione necessaria per il mio lavoro. Per raggiungere i vari villaggi infatti bisogna salire su su per la montagna e poi riscendere a valle: una, due, tre volte, tante quante le valli e le montagne, su sentieri dissestati che finiscono spesso sugli esilissimi ponti che attraversano innumerevoli rigagnoli e che poi si abbarbicano su per le pareti di granito. Un passo dopo l’altro, finisci per percorrere almeno una quindicina di chilometri ad ogni spostamento. Ad ogni nuovo percorso, ti viene da pensare che, da qualunque cosa stesse fuggendo quando venne ad installarsi quassù, questa gente ne doveva avere una fifa tremenda! Questi stessi sentieri per gli Zafimaniry sono il pane quotidiano giacché li percorrono a passo incredibilmente svelto ogni giorno, per andare e tornare dai campi e dal bosco. Il mercoledì, giorno di mercato, nutrite carovane di gente, provenienti dai quattro punti cardinali, attraversano in fila indiana le montagne in direzione di Antoetra, il capoluogo della comune, dal quale tornano trasportandosi i loro carichi, le donne sulla testa, gli uomini sulle spalle. Al mercato gli Zafimaniry ci vanno per comprare, quasi mai per vendere, e si muovono in gruppo per paura dei briganti che, crudele ironia, in questi tempi di povertà diffusa trovano lucrativo derubare persino dei semplici contadini.
Ad ogni arrivo in un nuovo villaggio, prima di poter parlare con possibili informanti per la mia ricerca, mi toccava poi attendere pazientemente la sera, perché fino all’imbrunire per strada ci sono solo bambini: chiunque ha braccia forti è al lavoro nei campi. Ovviamente, non tutti i villaggi Zafimaniry ricevono le visite dei turisti: del centinaio che ho menzionato, ne avrò visitati una quindicina e solo quattro possono dirsi a pieno titolo “a vocazione turistica”. Curiosamente, questi quattro non sono necessariamente i più belli, ma solamente i più accessibili. Ancora più curiosamente, i loro abitanti di turismo ne sanno poco o niente, nonostante ricevano una media di un migliaio di visitatori all’anno. Per loro il turismo è gente bianca che viene a fare delle foto, e tutto ciò che sperano è che gli lascino penne, quaderni e qualche maglietta usata, cosa che invece, da un diverso punto di vista, è proprio il peggio che gli potrebbe capitare. Ancor meno, sempre più curiosamente, sanno di essere “Patrimonio Intangibile dell’Umanità”. Paradossale, no?
Ma del resto che senso potrebbero avere per loro queste etichette? Le definizioni sono utili solo per chi sa come usarle e in molti casi servono a riempire dizionari e guide turistiche. È vero, la foresta brucia e con essa il futuro delle generazioni. È vero, il turismo potrebbe forse diventare un’efficace leva di sviluppo e contribuire alla salvaguardia della natura. Tuttavia, dopo qualche scambio con la gente del posto, ti viene il dubbio su da che parte stare, se con chi conserva o con chi distrugge. A questi ultimi, in fondo, che alternativa si propone? Il futuro sta da un’altra parte e per loro non è ancora imprescindibile cominciare ad immaginarlo, soprattutto a stomaco vuoto. E poi ancora, che ne può sapere del turismo questa gente che non è mai stata nemmeno in capitale? La loro è una “vocazione turistica” loro malgrado, che nessuno gli ha mai spiegato che cos’è né come potrebbero usarla per non essere costretti ad elemosinare.
Fuori dalle pagine dei libri dunque la visione del mondo è sempre più complessa e sfumata. Le parole, per essere sufficienti a descriverla con giustizia, devono attraversare innumerevoli ostacoli culturali e scendere giù nelle valli del significato.
Ma poiché questi per il momento vogliono essere solo frammenti, che mai hanno preteso di riuscire a dirla tutta sulla realtà di quest’isola, comincerò raccontando delle storie.
Che sia stato per desiderio di boschi intatti oppure di libertà, questa gente ha vissuto praticamente isolata per diverso tempo, su cime di difficile accesso e perennemente avvolte di bruma, praticando una agricoltura di sussistenza a base di mais, patate dolci, taro e manioca, ottenuta col sistema del “taglia e brucia”: tagliano alberi e arbusti, li lasciano seccare al sole, poi appiccano un fuoco controllato col quale liberano la parcella che diventerà terra di coltura. Dopo il raccolto, prima di ritornare sullo stesso appezzamento, lasciano riposare per un paio d’anni. Questa tecnica, che risparmia la fatica di dissodare e arare, ha però come conseguenza che, dopo due o tre rotazioni, la terra, esangue, non produce altro che felci e sterpaglia. Attualmente questo gruppo conta circa 50.000 persone sparsi in circa un centinaio di villaggi che, come il resto del Madagascar, sono in costante crescita demografica. Se è vero che siano fuggiti sulle montagne per “desiderio” della foresta (Zafimaniry significa, infatti, “discendenti che desiderano”), è indubbio che la foresta l’hanno amata fino ad ammazzarla: la distesa boscosa di un tempo è oggi ridotta ad un corridoio che si restringe ad ogni giorno che passa. “Maty ny ala” - ti dicono - “la foresta è morta” e sembrano alludere ad una catastrofe inevitabile con la quale loro non hanno niente a che vedere. Ma la foresta, da sola, non muore: sono gli Zafimaniry che se la stanno, quasi letteralmente, mangiando.
Tuttavia, non è per rimproverarli che sono andata a conoscerli!
Grazie alla loro tradizionale simbiosi con il bosco, gli Zafimaniry hanno infatti sviluppato una grandissima abilità nella lavorazione del legno. Quasi tutto, nel loro mondo, viene dalla foresta: le case, interamente di palissandro, sono autentici capolavori di incastro, costruite senza nemmeno un chiodo, completamente smontabili e con porte e finestre finemente scolpite; gli sgabelli su cui siedono sono ricavati da un unico blocco di legno; i grossi contenitori con i quali un tempo, quando la foresta era ancora lussureggiante e generosa, andavano a raccogliere il miele selvatico, sono tronchi scavati; i sepolcri famigliari sono pesanti sarcofagi, i più antichi dei quali assemblati con due soli blocchi di un unico tronco. Nella loro vita quotidiana, gli Zafimaniry riconoscono e utilizzano circa 23 tipi di legni diversi, ognuno con una sua precisa funzione. Questa incredibile maestria è stata dichiarata, nel 2003, Patrimonio Intangibile dell’Umanità dall’Unesco. Ma mentre la loro arte diventa Patrimonio Universale, la risorsa che permette loro di esserne maestri scompare lentamente (ma nemmeno troppo) e senza nessun clamore, distrutta proprio da coloro che dovrebbero esserne i custodi.
Ciononostante, il paese degli Zafimaniry continua ad offrire una panorama di straordinaria bellezza e ad essere meta di numerosi turisti, che si avventurano in trekking di uno o più giorni, per visitare quelle piccole meraviglie di palissandro nascoste in mezzo alle montagne.
Così, eccomi là, a osservare interazioni e cambiamenti derivanti dal contatto con lo straniero, in un mondo vegetale in cui la richiesta di regalare bottiglie di plastica vuote e la presenza di qualche telefonino (che però funziona soltanto se ti arrampichi in cima alla montagna), rappresentano il primo, ma non certo l’ultimo, segno del peggio della globalizzazione che avanza.
Ho trascorso nel paese zafimaniry circa tre settimane, durante le quali ho incontrato e discusso con i notabili del villaggio e con tutti coloro che, in una forma o l’altra, possono essere implicati direttamente o fungere da osservatori privilegiati nell’incontro turistico. Sono state tre settimane fisicamente impegnative perché, per spostarmi da un villaggio all’altro, ho dovuto fare del trekking - il diversivo naturalistico del turista – la condizione necessaria per il mio lavoro. Per raggiungere i vari villaggi infatti bisogna salire su su per la montagna e poi riscendere a valle: una, due, tre volte, tante quante le valli e le montagne, su sentieri dissestati che finiscono spesso sugli esilissimi ponti che attraversano innumerevoli rigagnoli e che poi si abbarbicano su per le pareti di granito. Un passo dopo l’altro, finisci per percorrere almeno una quindicina di chilometri ad ogni spostamento. Ad ogni nuovo percorso, ti viene da pensare che, da qualunque cosa stesse fuggendo quando venne ad installarsi quassù, questa gente ne doveva avere una fifa tremenda! Questi stessi sentieri per gli Zafimaniry sono il pane quotidiano giacché li percorrono a passo incredibilmente svelto ogni giorno, per andare e tornare dai campi e dal bosco. Il mercoledì, giorno di mercato, nutrite carovane di gente, provenienti dai quattro punti cardinali, attraversano in fila indiana le montagne in direzione di Antoetra, il capoluogo della comune, dal quale tornano trasportandosi i loro carichi, le donne sulla testa, gli uomini sulle spalle. Al mercato gli Zafimaniry ci vanno per comprare, quasi mai per vendere, e si muovono in gruppo per paura dei briganti che, crudele ironia, in questi tempi di povertà diffusa trovano lucrativo derubare persino dei semplici contadini.
Ad ogni arrivo in un nuovo villaggio, prima di poter parlare con possibili informanti per la mia ricerca, mi toccava poi attendere pazientemente la sera, perché fino all’imbrunire per strada ci sono solo bambini: chiunque ha braccia forti è al lavoro nei campi. Ovviamente, non tutti i villaggi Zafimaniry ricevono le visite dei turisti: del centinaio che ho menzionato, ne avrò visitati una quindicina e solo quattro possono dirsi a pieno titolo “a vocazione turistica”. Curiosamente, questi quattro non sono necessariamente i più belli, ma solamente i più accessibili. Ancora più curiosamente, i loro abitanti di turismo ne sanno poco o niente, nonostante ricevano una media di un migliaio di visitatori all’anno. Per loro il turismo è gente bianca che viene a fare delle foto, e tutto ciò che sperano è che gli lascino penne, quaderni e qualche maglietta usata, cosa che invece, da un diverso punto di vista, è proprio il peggio che gli potrebbe capitare. Ancor meno, sempre più curiosamente, sanno di essere “Patrimonio Intangibile dell’Umanità”. Paradossale, no?
Ma del resto che senso potrebbero avere per loro queste etichette? Le definizioni sono utili solo per chi sa come usarle e in molti casi servono a riempire dizionari e guide turistiche. È vero, la foresta brucia e con essa il futuro delle generazioni. È vero, il turismo potrebbe forse diventare un’efficace leva di sviluppo e contribuire alla salvaguardia della natura. Tuttavia, dopo qualche scambio con la gente del posto, ti viene il dubbio su da che parte stare, se con chi conserva o con chi distrugge. A questi ultimi, in fondo, che alternativa si propone? Il futuro sta da un’altra parte e per loro non è ancora imprescindibile cominciare ad immaginarlo, soprattutto a stomaco vuoto. E poi ancora, che ne può sapere del turismo questa gente che non è mai stata nemmeno in capitale? La loro è una “vocazione turistica” loro malgrado, che nessuno gli ha mai spiegato che cos’è né come potrebbero usarla per non essere costretti ad elemosinare.
Fuori dalle pagine dei libri dunque la visione del mondo è sempre più complessa e sfumata. Le parole, per essere sufficienti a descriverla con giustizia, devono attraversare innumerevoli ostacoli culturali e scendere giù nelle valli del significato.
Ma poiché questi per il momento vogliono essere solo frammenti, che mai hanno preteso di riuscire a dirla tutta sulla realtà di quest’isola, comincerò raccontando delle storie.
lunedì 5 ottobre 2009
Sorry, but…
Viaggiare è bello perché ti fa apprezzare le cose che dai per scontato. Qualche tempo fa leggevo che riflettere su ciò che si ha è un ottimo esercizio per allenare il proprio senso di gratitudine. Stando così le cose, sto quindi unendo l’utile al dilettevole e lavorando per diventare una persona migliore (!).
Quando sono venuta in Madagascar, qualcun’altro che c’era stato prima di me si è stupito che io temessi la mancanza di comunicazione col mondo. C’è bastato poco per rendermi conto che, forse, lui in Madagascar non c’era mai stato, o perlomeno, il suo Madagascar non era lo stesso. In questo Madagascar, dal quale vi scrivo, l’ADSL non è ancora arrivata, il telefono prende solo nelle città e per allegare un file pdf, l’altro giorno, dopo aver cercato e scovato l’unico internet point di questa cittadina di 30.000 abitanti, operazione che già in sé ha richiesto circa una mezza giornata di investigazione, c’ho messo la bellezza di 94 minuti! E questo, a scanso equivoci, se qualche volta mi fa innervosire, il più delle volte mi fa invece riflettere molto profondamente sull’Occidente dal quale provengo e sulla quotidianità di un Paese in Via di Sviluppo, o del Terzo Mondo, come si diceva prima dell’avvento del “politically correct”…ma quella è un’altra storia, e ve la racconterò un’altra volta.
Queste difficoltà tecniche mi costringono a postare con immenso ritardo, intanto che di acqua sotto i ponti ne continua a passare e le situazioni e i sentimenti cambiano velocemente. Ciononostante, non rinuncio alla voglia di nutrire questo blog raccontando fatti che, anche se portano a procedere a ritroso, mi sono utili per documentare tutti i vari passaggi di questi mesi.
Oggi, 5 ottobre, sono di ritorno da 2 settimane di lavoro di campo nelle comunità zafimaniry. Nell’attesa di digerire le informazioni raccolte e le esperienze vissute, vi lascio con quello che succedeva due settimane che sembrano un eternità fa… Buona lettura!
Quando sono venuta in Madagascar, qualcun’altro che c’era stato prima di me si è stupito che io temessi la mancanza di comunicazione col mondo. C’è bastato poco per rendermi conto che, forse, lui in Madagascar non c’era mai stato, o perlomeno, il suo Madagascar non era lo stesso. In questo Madagascar, dal quale vi scrivo, l’ADSL non è ancora arrivata, il telefono prende solo nelle città e per allegare un file pdf, l’altro giorno, dopo aver cercato e scovato l’unico internet point di questa cittadina di 30.000 abitanti, operazione che già in sé ha richiesto circa una mezza giornata di investigazione, c’ho messo la bellezza di 94 minuti! E questo, a scanso equivoci, se qualche volta mi fa innervosire, il più delle volte mi fa invece riflettere molto profondamente sull’Occidente dal quale provengo e sulla quotidianità di un Paese in Via di Sviluppo, o del Terzo Mondo, come si diceva prima dell’avvento del “politically correct”…ma quella è un’altra storia, e ve la racconterò un’altra volta.
Queste difficoltà tecniche mi costringono a postare con immenso ritardo, intanto che di acqua sotto i ponti ne continua a passare e le situazioni e i sentimenti cambiano velocemente. Ciononostante, non rinuncio alla voglia di nutrire questo blog raccontando fatti che, anche se portano a procedere a ritroso, mi sono utili per documentare tutti i vari passaggi di questi mesi.
Oggi, 5 ottobre, sono di ritorno da 2 settimane di lavoro di campo nelle comunità zafimaniry. Nell’attesa di digerire le informazioni raccolte e le esperienze vissute, vi lascio con quello che succedeva due settimane che sembrano un eternità fa… Buona lettura!
A proposito di attese…
Così, tanto per trastullarci, riprendiamo un filo lasciato in sospeso. Vi ricordate quella lunga, tortuosa storia di visto? Per la gioia degli appassionati di telenovele, la vicenda non è ancora finita!
L’ultima volta che ci eravamo sentiti, agli inizi di luglio, la sottoscritta, dopo una decina di giorni passati tra i corridoi del Ministero dell’Interno malgascio, era riuscita ad ottenere una “ricevuta di deposito della richiesta di visto”, che le dava diritto a muoversi più o meno liberamente per il paese fino al 9 di agosto. “Le manderemo una notifica per posta prima della scadenza!”, mi aveva detto la simpatica addetta alla sportello.
Qualche giorno prima del 9 agosto, in effetti, la notifica è arrivata. “Gentilissima Madame – recitava la lettera che parafraso liberamente – abbiamo l’onore di informarla che, bla bla bla bla bla bla, se vuole ottenere il visto ci deve far pervenire le ricevute di versamento di somme alquanto considerevoli, ovvero, 60 euro per il visto più altri 92 per il rilascio della carta di residenza”. GULP. Non è che morissi dalla voglia di investire altri 150 € in bolli, ecco! In più, mi sembra che per gli studenti dovesse esserci il metà prezzo!
Occorre un faccia a faccia. Approfittando dell’arrivo del mio fedele compagno di merende, Vince, mi reco in capitale. Plano sugli uffici del Ministero. L’impiegata è sempre lì. Oggi, per darsi l’aria più indaffarata del solito, sta giocando al solitario. Dopo avermi ignorato per circa dieci minuti, durante i quali io esorcizzo l’attesa immaginando di fare pipì nel bel mezzo dell’ufficio o di dare fuoco a tutte quelle pile di scartoffie che traboccano dagli scaffali, la tipa fa fremere un sopracciglio e mi rivolge un infastidito: “Che cosa ci fa qui?”, senza “lei” e senza “s’il vous plait”. Le spiego che mi è arrivata la notifica di pagamento del visto, ma che forse ci dev’essere un errore, perché io sono studentessa e mi si sta chiedendo una somma esagerata, il doppio di quella ufficiale, che non solo è pubblicamente affissa all’ingresso ma anche stampata su quell’avviso che le penzola proprio davanti al naso. “Certo, certo!” - dice poco convinta la nostra paladina della postilla – “ma il fatto è che ci sono diversi tipi di studenti”. “Certo, certo - penso io, più che mai decisa a non mollare – “E dove starebbe, questa classifica delle varie tipologie?”“Mmm…bahhhh…insomma….forse…un attimo che controllo…” e lascia a mezzo il solitario per far finta di prendere tempo prima di tornare indietro a darmi la ragione e lo sconto. Strappa quindi la notifica che mi era arrivata, prende un foglio pulito e si accinge a ricopiare il testo, a mano. Si blocca un momento perché non sa fare 92 diviso 2 senza la calcolatrice. Riprende a scrivere. “Ecco! Adesso può andare a pagare. I 30 euro li paga direttamente al Ministero del Tesoro, i rimanenti 46 tramite bonifico bancario indirizzato al Ministero dell’Interno. Ah, dimenticavo!Per questo secondo versamento deve aprirsi un conto bancario in Madagascar!” – “Scusi, ma non potrei farlo dal mio conto bancario spagnolo, il versamento?” – “Perché, conta di tornare in Spagna, nei prossimi giorni?”.
Indecisa se ridere o piangere, capisco che la dimestichezza della nostra funzionaria con la tecnologia si limita al gioco del solitario, per cui la saluto, tutto sommato cordialmente, e, ormai a pezzi, sciamo verso la banca.
Coda.
Attesa.
Arriva il mio turno: “Buongiorno, dovrei fare questo versamento!”- “Ottimo. Ecco la lista dei documenti da consegnare per poter aprire un conto in banca!”. Un’altra decina di fotocopie, bolli, certificati, foto tessere e scartoffie da un giorno di sbattimento l’una.
Invito all’illegalità.
Invito alla corruzione.
Invito al terrorismo.
NO. NO. NO. IO NON VOGLIO VENIRE A VIVERE IN MADAGASCAR. IO NON VOGLIO RIMANERCI PER SEMPRE. IO VOGLIO SOLO FARE UNA PICCOLA, MODESTA, INNOCUA RICERCA E POI TORNARE A CASA MIA. NON VOGLIO UNA CARTA DI RESIDENZA. NON VOGLIO UN CONTO IN BANCA. HO GIA IL MIO BIGLIETTO DI RITORNO E PER QUANTO MI RIGUARDA, SONO PRONTA ANCHE AD USARLO SUBITO. LA PREGO SIGNORA NON MI TORMENTI, IL MIO TEMPO STA PER SCADERE.
Ma si sa, le preghiere non servono a molto, se Dio c’ha il visto scaduto pure lui. L’indomani, quindi, dopo aver lungamente riflettuto, risolvo di cercare qualcuno che abbia già un conto in banca e che possa fare il versamento al posto mio. Lo trovo. Ci dovremmo incontrare ma lui è malato. Allora, pur di cominciare da qualche parte, vado a fare il primo dei due versamenti, quello al Ministero del Tesoro. E proprio lì, che sta facendo la fila pure lui, trovo Ahmed Said, uno studente comoriano. Gli chiedo: “Ma tu come fai, a fare tutte queste trafile? Un conto in banca ce l’hai?” E Ahmed Said mi dice che lui il conto in banca non ce l’ha, ma che qualcuno disposto a fare un versamento al posto suo, e anche mio se ho bisogno, già lo conosce. Così io e Vince seguiamo Ahmed Said, che ci porta in una piazzetta, dove c’è un tipo. Costui vorrebbe i soldi, ma io non glie li do. “Vai a fare il versamento prima – gli dico – e poi, con la ricevuta in mano, io ti rimborso i soldi”. Incredibile ma vero, e anche questo è Madagascar, il tipo torna dopo mezzora con la ricevuta. Tutto a posto, tutto in ordine, non mi chiede nemmeno una lira, ma penso che sia perché da qualche parte la sua cresta se la dev’essere già fatta. Io comunque il taxy glie lo pago, mi sembra il minimo e poi è meno di un euro. Ringrazio. Con Ahmed Said corriamo al Ministero, che ha già chiuso ma ci lascia entrare lo stesso. Ho tutti i documenti, tutti i versamenti, tutte le buste pre-affrancate, tutte le fotografie. “Tutto in ordine”- dice la sempre più sfaccendata funzionaria “Fra una settimana può passare a ritirare il visto. Per la carta di residenza, dovrà aspettare circa un mese. Fino ad allora, il suo passaporto ce lo teniamo noi”.
Questo accadeva il 25 di agosto. Ad oggi, il mio passaporto è ancora li. Tanto in tre mesi non me lo ha mai chiesto nessuno. Spero che il visto sia pronto, spero che non me l’abbiano perso. Ma che devo fare? Se avessi saputo che era un argomento così interessante, la mia tesi la scrivevo sulla burocrazia malgascia!!
L’ultima volta che ci eravamo sentiti, agli inizi di luglio, la sottoscritta, dopo una decina di giorni passati tra i corridoi del Ministero dell’Interno malgascio, era riuscita ad ottenere una “ricevuta di deposito della richiesta di visto”, che le dava diritto a muoversi più o meno liberamente per il paese fino al 9 di agosto. “Le manderemo una notifica per posta prima della scadenza!”, mi aveva detto la simpatica addetta alla sportello.
Qualche giorno prima del 9 agosto, in effetti, la notifica è arrivata. “Gentilissima Madame – recitava la lettera che parafraso liberamente – abbiamo l’onore di informarla che, bla bla bla bla bla bla, se vuole ottenere il visto ci deve far pervenire le ricevute di versamento di somme alquanto considerevoli, ovvero, 60 euro per il visto più altri 92 per il rilascio della carta di residenza”. GULP. Non è che morissi dalla voglia di investire altri 150 € in bolli, ecco! In più, mi sembra che per gli studenti dovesse esserci il metà prezzo!
Occorre un faccia a faccia. Approfittando dell’arrivo del mio fedele compagno di merende, Vince, mi reco in capitale. Plano sugli uffici del Ministero. L’impiegata è sempre lì. Oggi, per darsi l’aria più indaffarata del solito, sta giocando al solitario. Dopo avermi ignorato per circa dieci minuti, durante i quali io esorcizzo l’attesa immaginando di fare pipì nel bel mezzo dell’ufficio o di dare fuoco a tutte quelle pile di scartoffie che traboccano dagli scaffali, la tipa fa fremere un sopracciglio e mi rivolge un infastidito: “Che cosa ci fa qui?”, senza “lei” e senza “s’il vous plait”. Le spiego che mi è arrivata la notifica di pagamento del visto, ma che forse ci dev’essere un errore, perché io sono studentessa e mi si sta chiedendo una somma esagerata, il doppio di quella ufficiale, che non solo è pubblicamente affissa all’ingresso ma anche stampata su quell’avviso che le penzola proprio davanti al naso. “Certo, certo!” - dice poco convinta la nostra paladina della postilla – “ma il fatto è che ci sono diversi tipi di studenti”. “Certo, certo - penso io, più che mai decisa a non mollare – “E dove starebbe, questa classifica delle varie tipologie?”“Mmm…bahhhh…insomma….forse…un attimo che controllo…” e lascia a mezzo il solitario per far finta di prendere tempo prima di tornare indietro a darmi la ragione e lo sconto. Strappa quindi la notifica che mi era arrivata, prende un foglio pulito e si accinge a ricopiare il testo, a mano. Si blocca un momento perché non sa fare 92 diviso 2 senza la calcolatrice. Riprende a scrivere. “Ecco! Adesso può andare a pagare. I 30 euro li paga direttamente al Ministero del Tesoro, i rimanenti 46 tramite bonifico bancario indirizzato al Ministero dell’Interno. Ah, dimenticavo!Per questo secondo versamento deve aprirsi un conto bancario in Madagascar!” – “Scusi, ma non potrei farlo dal mio conto bancario spagnolo, il versamento?” – “Perché, conta di tornare in Spagna, nei prossimi giorni?”.
Indecisa se ridere o piangere, capisco che la dimestichezza della nostra funzionaria con la tecnologia si limita al gioco del solitario, per cui la saluto, tutto sommato cordialmente, e, ormai a pezzi, sciamo verso la banca.
Coda.
Attesa.
Arriva il mio turno: “Buongiorno, dovrei fare questo versamento!”- “Ottimo. Ecco la lista dei documenti da consegnare per poter aprire un conto in banca!”. Un’altra decina di fotocopie, bolli, certificati, foto tessere e scartoffie da un giorno di sbattimento l’una.
Invito all’illegalità.
Invito alla corruzione.
Invito al terrorismo.
NO. NO. NO. IO NON VOGLIO VENIRE A VIVERE IN MADAGASCAR. IO NON VOGLIO RIMANERCI PER SEMPRE. IO VOGLIO SOLO FARE UNA PICCOLA, MODESTA, INNOCUA RICERCA E POI TORNARE A CASA MIA. NON VOGLIO UNA CARTA DI RESIDENZA. NON VOGLIO UN CONTO IN BANCA. HO GIA IL MIO BIGLIETTO DI RITORNO E PER QUANTO MI RIGUARDA, SONO PRONTA ANCHE AD USARLO SUBITO. LA PREGO SIGNORA NON MI TORMENTI, IL MIO TEMPO STA PER SCADERE.
Ma si sa, le preghiere non servono a molto, se Dio c’ha il visto scaduto pure lui. L’indomani, quindi, dopo aver lungamente riflettuto, risolvo di cercare qualcuno che abbia già un conto in banca e che possa fare il versamento al posto mio. Lo trovo. Ci dovremmo incontrare ma lui è malato. Allora, pur di cominciare da qualche parte, vado a fare il primo dei due versamenti, quello al Ministero del Tesoro. E proprio lì, che sta facendo la fila pure lui, trovo Ahmed Said, uno studente comoriano. Gli chiedo: “Ma tu come fai, a fare tutte queste trafile? Un conto in banca ce l’hai?” E Ahmed Said mi dice che lui il conto in banca non ce l’ha, ma che qualcuno disposto a fare un versamento al posto suo, e anche mio se ho bisogno, già lo conosce. Così io e Vince seguiamo Ahmed Said, che ci porta in una piazzetta, dove c’è un tipo. Costui vorrebbe i soldi, ma io non glie li do. “Vai a fare il versamento prima – gli dico – e poi, con la ricevuta in mano, io ti rimborso i soldi”. Incredibile ma vero, e anche questo è Madagascar, il tipo torna dopo mezzora con la ricevuta. Tutto a posto, tutto in ordine, non mi chiede nemmeno una lira, ma penso che sia perché da qualche parte la sua cresta se la dev’essere già fatta. Io comunque il taxy glie lo pago, mi sembra il minimo e poi è meno di un euro. Ringrazio. Con Ahmed Said corriamo al Ministero, che ha già chiuso ma ci lascia entrare lo stesso. Ho tutti i documenti, tutti i versamenti, tutte le buste pre-affrancate, tutte le fotografie. “Tutto in ordine”- dice la sempre più sfaccendata funzionaria “Fra una settimana può passare a ritirare il visto. Per la carta di residenza, dovrà aspettare circa un mese. Fino ad allora, il suo passaporto ce lo teniamo noi”.
Questo accadeva il 25 di agosto. Ad oggi, il mio passaporto è ancora li. Tanto in tre mesi non me lo ha mai chiesto nessuno. Spero che il visto sia pronto, spero che non me l’abbiano perso. Ma che devo fare? Se avessi saputo che era un argomento così interessante, la mia tesi la scrivevo sulla burocrazia malgascia!!
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